Dicono che non gli piaccia farsi chiamare «Sir». Keir Starmer ha quel titolo dal 2014, lo deve alla sua vita precedente, da procuratore capo del Crown Prosecution Service. Se diventasse primo ministro, potrebbe vantare d’essere già stato insignito del cavalierato, a differenza di Tony Blair che ha atteso quindici anni dopo Downing Street. Nella carriera legale ha difeso persino Silvio Berlusconi dalle accuse di frode fiscale e oggi guida i laburisti verso il ritorno al potere. In questa riscossa, parlando da premier in pectore più che ombra, ha proposto di abolire la Camera dei Lord e ha rinviato come «non urgente» un secondo referendum in Scozia, ma continua a ignorare l’elefante nella stanza, cioè un disastro chiamato Brexit.
Nei sondaggi, il Labour veleggia. Stacca di ventidue punti i conservatori, reduci dagli scandali di Boris Johnson e dall’implosione di Liz Truss, cosplayer di Liz Truss durata meno di un’insalata. Era un anno fa l’ultima volta che i Tories sono stati primi in questa classifica, virtuale perché le prossime elezioni saranno tra fine 2024 e inizio 2025. Manca tantissimo, anche se ormai l’instabilità politica inglese è più proverbiale di quella italiana. Nella rimonta, oltre agli evidenti demeriti degli avversari, ha pagato la strategia centrista di Starmer, un nuovo new Labour, capace di riconquistare la fiducia dei britannici più della stagione radicale di Jeremy Corbyn, temuto più che amato e incapace di sanare gli spettri di antisemitismo nel partito.
Riformare, anzi abolire
Il Senato americano, per citare uno degli esempi più triti, ha cento membri su una popolazione di trecento milioni di persone. Di fronte ai numeri dell’ex colonia, difficile giustificare più di ottocento componenti con una funzione sempre più cerimoniale e ormai labili poteri di interdizione sulle leggi (solo su quelle trasmesse dalla Camera dei Comuni). I «pari d’Inghilterra» non sono salariati, ma ricevono comunque un’indennità di 323 sterline al giorno, più il rimborso delle spese di viaggio, vitto e alloggio.
Il costo totale per i contribuenti si aggira sui quindici milioni di sterline all’anno. Per questo, il dibattito è annoso. Dopo la riforma del 1999, non si è più lord per «diritto di nascita», ma solo in virtù di una nomina che è sovente politica. I gruppi parlamentari riflettono quelli di Westminster, con l’eccezione dei crossbenchers, gli indipendenti, seconda forza del palazzo. L’ultimo tentativo di cambiare lo status quo fu combattuto dai libdem di Nick Clegg, ai tempi della coalizione con David Cameron, ma fu affossato proprio dai conservatori.
Riecco Gordon Brown
Entrambi gli schieramenti hanno usato le loro quote per ricompensare finanziatori e alleati. Johnson in particolare. Ha elevato al «peerage» uno dei principali sponsor del partito, Michael Hintze, e l’amico Evgeny Lebedev, editore dell’Evening Standard. Insomma, non ha tutti i torti Starmer quando spiega che l’istituzione è screditata. La proposta è uno dei punti salienti del documento di 155 pagine compilato dall’ex primo ministro Gordon Brown. Titolo: “New Britain”.
L’incarico gli è stato assegnato del 2020, è a tutti gli effetti un trailer del manifesto dei laburisti alle prossime elezioni. Le anticipazioni filtrate alla stampa, quella che nei titoli rispetta quel «Sir», anticipavano una ristrutturazione. I retroscena del Times hanno riferito di scontro tra i consiglieri del leader e quelli di Brown. Le tensioni interne e le pressioni dell’ala scozzese dei laburisti avrebbero indotto Starmer ad accelerare. Si arriva all’endgame. Va davanti alle telecamere di Sky News e dice che sì, la Camera dei Lord è «indifendibile», vuole abolirla.
Detta così sembra una condanna a morte per l’altro ramo della democrazia. In realtà, il progetto è «renderla funzionante finché non sarà sostituita da una seconda Camera». Anche se l’orizzonte temporale è il primo mandato a Downing Street – dato quasi per scontato, cabala questa sconosciuta – si ipotizza già una transizione in cui i nuovi membri verranno eletti. È una ricetta meno massimalista di come si presenta e viene presentata. Concavo o convesso secondo necessità, direbbe un vecchio cliente di Starmer.
Dare un’alternativa a Edimburgo
La Scozia è l’altro addendo di questa equazione. La Corte suprema britannica ha chiarito che un nuovo referendum secessionista non può essere innescato unilateralmente, serve l’autorizzazione del Parlamento di Londra. Il piano Starmer-Brown servirebbe anche a questo: riconquistare la nazione ribelle, quella che nel 2014 ha rischiato di incrinare l’unità territoriale del Regno Unito. Non a caso, il duo ha scelto Edimburgo per presentare il manifesto. Si tratta di «dare un’alternativa» per il cambiamento, ha spiegato il decano.
I laburisti scozzesi hanno spinto per una linea più tranciante sulla Camera dei Lord. Il loro segretario, Anas Sarwar, avrebbe convinto Starmer che l’abolizione gli garantirebbe i consensi e il sostegno popolare su cui impostare un premierato di rottura. Oltre a misure quasi populiste, come vietare i «secondi lavori» dei deputati, il filo rosso di molte altre pagine di “New Britain” torna a una strategia di riconciliazione nazionale con la Scozia. Su tutte, il trasferimento di cinquantamila funzionari e dipendenti pubblici (il dieci per cento del totale) lontano dalla capitale. Un obiettivo condiviso dal governo di Rishi Sunak, è diverso solo il volume della relocation (ventiduemila posti di lavoro).
Il fronte settentrionale
Non sono novità in assoluto. Per questo Keith Brown, vice di Nicola Sturgeon alla guida dello Scottish National Party (Snp), può bocciarle: «Dopo aver decantato questo report per mesi e mesi, è l’ennesimo deludente piano di riforma costituzionale, pieno di vaghe banalità e vuote promesse, più l’impegno a cambiare la Camera dei Lord per la decimillesima volta». In una riga: già sentito. I laburisti, oltre il vallo di Adriano, non toccano palla: hanno un solo deputato (su cinquantanove) a Holyrood, il Parlamento locale.
La campagna settentrionale dei laburisti vorrebbe spostare questi equilibri. Anche Sturgeon è impegnata in una lunga marcia, che per certi versi coincide con la sua sopravvivenza politica. Vuole utilizzare le prossime elezioni come un «referendum di fatto» sull’indipendenza. Uno scenario alla catalana. Lo strappo va contro il «buonsenso» e una vittoria alle urne non si tradurrebbe in un mandato popolare per lasciare il Regno Unito, le ha risposto Starmer. Un perfetto allineamento con Sunak sul “benaltrismo” delle priorità di cui deve farsi carico l’esecutivo.
Il fantasma della Brexit
C’è un altro punto su cui Sunak e Starmer sono gemelli diversi. È l’uscita dall’Unione europea. Viene percepita come irreversibile. Per tutti e due metterla in discussione è un tabù. Nel caso del conservatore, Leaver convinto nel 2016 e appeso alla maggioranza del «Get Brexit Done» di Boris, è comprensibile. Lo è meno per il frontman di un partito progressista. È come se entrambi fossero ostaggio del fantasma del voto del dicembre 2019, quando il trionfo passò dalla caduta di un fantomatico «muro rosso». Un pugno di seggi operai diventati «blu» non può paralizzare il futuro di un Paese intero e, soprattutto, non costituisce un pacchetto di mischia sufficiente a conquistare Downing Street.
È una minoranza rumorosa anche quella dei Brexiteers irriducibili. Infatti, Starmer chiarisce che un governo laburista non riporterebbe la Gran Bretagna dentro il mercato unico europeo. Ma ci sono altri sondaggi, oltre a quelli, più effimeri, su un’elezione suppletiva. È finita la sindrome, dove Stoccolma era sul Tamigi, per cui gli inglesi erano delusi ma non pentiti della Brexit. Ora solo il trentadue per cento degli intervistati pensa che quella del 2016 sia stata la scelta giusta. Ma soprattutto, ed è la prima volta in cui il distacco non è nell’ordine di grandezza di un punto, se si rivotasse oggi vincerebbe il Remain. Anzi, il Rejoin. È a questa maggioranza (fino a quando?) silenziosa che dovrebbe guardare il prossimo primo ministro britannico.
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