Territori stravoltiRinaturalizzare il corso dei fiumi per reagire a decenni di “tombinamento” selvaggio

L’Italia ha abusato per secoli dei fiumi tombati, sfruttando in modo insostenibile le zone paludose e aumentando il rischio idrogeologico. Ora più che mai è necessaria una grande opera di restauro del bacino del Po

Michele Nucci/LaPresse

Se la crisi climatica è una bomba a orologeria, in Italia il ticchettio arriva dai fiumi. Il caso Emilia-Romagna dimostra come l’acqua – una risorsa preziosissima – abbia anche effetti distruttivi se incontrollata. Un tempo pensavamo bastasse canalizzarla con l’ingegneria idraulica, ma i modelli adottati fino a oggi non bastano più. Siamo davvero sicuri allora che nel Paese europeo a maggior rischio idrogeologico, sia una buona idea tombare i fiumi?

«L’Italia conta 628mila frane sulle 750mila in tutta Europa», spiega Erasmo D’Angelis, sottosegretario di Stato al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, che nel 2014 guidò ItaliaSicura, task force incaricata di progettare opere di prevenzione durante il governo Renzi. 

«Siamo un territorio non solo morfologicamente giovane ma anche sottoposto a più piogge rispetto agli altri Paesi europei. Abbiamo anche più fiumi, 7.546 corsi d’acqua, è normale quindi essere sovraesposti al fenomeno delle alluvioni. Il punto è che quegli stessi fiumi se non piove si prosciugano, ecco perché per esempio tanti tratti del Po sono secchi per poi sollevarsi fino a sei metri d’altezza con gli agenti atmosferici».

Cosa sono i fiumi tombati 
Anziché sviluppare nuove tecniche per contenere i disastri ambientali, l’Italia ha abusato per secoli dei fiumi tombati, una pratica dell’era napoleonica che coinvolge dodicimila chilometri di corsi d’acqua, più o meno la distanza che separa Roma da Honolulu. Un fiume tombato è un corso d’acqua che viene trasformato in un canale sotterraneo, deviandone il flusso sotto strade ed edifici e riuscendo così a costruire in superficie sopra al fiume. “Chiudere” un corso d’acqua rappresenta oggi però un rischio: in questo modo si sottrae lo scolo, ossia l’area lungo gli argini che permette alle acque di defluire quando la portata del fiume aumenta significativamente.

Stando al rapporto di Legambiente “Alluvioni in Italia”, «da gennaio a luglio 2022 si sono registrati in Italia centotrentadue eventi climatici estremi (il numero più alto della media annua dell’ultimo decennio)», perciò dovremmo imparare a convivere con l’eventualità di allagamenti e bombe d’acqua. Anche Wwf, pochi giorni fa, ha invocato strategie diverse per far fronte alla crisi climatica, sostenendo che «bisogna ridare spazio ai fiumi, recuperare aree di esondazione naturale, ripristinare, ove possibile i vecchi tracciati». 

Soprattutto perché, quando acqua e fango si ritirano, l’ambiente che rimane è tutt’altro che sostenibile. «Le conseguenze sono misurabili nella sostanza organica rimasta nel terreno, il nostro Paese ha tenori generalmente bassi», spiega Franco Ferroni, responsabile agricoltura di Wwf Italia, «l’acqua delle alluvioni ha lavato via quel poco di sostanza organica che contenevano, ciò vuol dire che in futuro avremo terreni molto poveri e l’unico modo per recuperare la fertilità sarà attraverso un piano di fertilizzazione naturale». 

Le alluvioni stanno perciò stravolgendo totalmente la composizione dei territori, come ha raccontato persino il sindaco di Castel Bolognese, Luca Della Godenza, parlando la situazione sull’Appennino: «È cambiata la geografia, bisognerebbe riscrivere i libri: non ci sono più dei monti, non ci sono più delle strade, non ci sono dei ponti».

I fiumi si ribellano all’abuso edilizio 
L’Italia è, di fatto, un Paese che poggia sulle stesse acque chete che da tempo tenta di domare, ma se ciò era possibile nell’Ottocento quando si usavano i fiumi tombati per ragioni sanitarie, negli anni Sessanta e Settanta si è abusato di quelle zone paludose, amplificando il rischio idrogeologico. Quando il canale del fiume tombato non è infatti sufficiente a convogliare tutte le precipitazioni raccolte, la pressione dell’acqua può inondare l’ambiente circostante e risalire prepotentemente in superficie.

È quello che è successo per esempio in Emilia-Romagna con il torrente Ravone, che ha invaso una zona di Bologna, così come nel 1932. Lo stesso si può dire per il Taro a Parma, l’Aposa a Bologna e il Marecchia di Rimini: tutti fiumi tombati. È una situazione che non riguarda solo il ravennate, perché secondo il rapporto Ispra del 2021, Toscana, Campania, Veneto, Lombardia e Liguria sono le regioni con più abitanti a rischio per frane e alluvioni. Il 93,9% dei comuni italiani (7.423) è a rischio per frane, alluvioni e/o erosione costiera, oggi 1,3 milioni di persone convivono con il rischio frane e quelle esposte al rischio di alluvioni sono 6,8 milioni.

Genova e Milano per esempio hanno fatto dell’ingegneria idraulica il loro modello di vivibilità, rischi annessi. «Genova è la città martire dei fiumi tombati, ne conta cinquantadue chilometri, così come Milano registra una media di allagamenti del Seveso di uno-due volte all’anno», interviene D’Angelis. «Il Seveso trasporta fiumi sotterranei per circa nove chilometri sotto Milano. Si può dire che il capoluogo lombardo sia una città nata sull’acqua perché era un’antica palude, tant’è che sotto Milano scorrono trecentosettanta chilometri di corsi d’acqua e di canali artificiali. Per esempio l’opera realizzata nel Parco Nord, che contiene duecentocinquanta metri cubi di metri d’acqua del Seveso, può essere considerata un modello virtuoso».

Non lo è secondo gli esperti, invece, la pratica del tombinamento. «Tombare i fiumi è una delle prassi più dannose da un punto di vista ambientale, ha portato solo a malanni perché i corsi d’acqua per loro natura tendono a variare nel tempo», spiega l’ingegner Antonio Rusconi, ex dirigente del ministero dei Lavori pubblici e segretario dell’Autorità di bacino dei fiumi dell’Alto Adriatico. Inoltre, interrare i fiumi non sarebbe consigliabile nemmeno da un punto di vista normativo. «L’articolo 106 del Testo unico ambiente del 2000 ne vieta l’utilizzo. Perché l’Italia non considera invece la direttiva europea sulle alluvioni 2007/60?», chiede Rusconi.

La crisi climatica non ha stravolto solo i territori, ma anche i modelli predittivi che l’Italia applicava fino a ora nella gestione alluvionale, modificando i “tempi di ritorno”, gli intervalli di tempo che intercorrono tra un disastro ambientale e l’altro. «I tempi di ritorno fino al Novecento andavano bene, quando registravamo cinque o sei eventi estremi, ma dagli anni Novanta quelle statistiche non hanno più senso», prosegue D’Angelis.

«Lo dobbiamo anche a una sottovalutazione enorme del rischio idrogeologico, che ha reso più friabile il terreno: abbiamo costruito fiumi tombati con dodicimila chilometri corsi d’acqua costringendoli a percorrere le gallerie, cementificando percorsi vietati sia dalla legge italiana sia da quella naturale. Ci manca completamente la cultura dell’educazione al rischio».

Rinaturalizzare i fiumi
La situazione straordinaria che riguarda la Pianura Padana ha portato tecnici e operai che lavorano nel ravennate a tentare un’impresa storica in Italia: forzare il corso del Canale emiliano-romagnolo per deviare il fiume verso il Po, trasformandolo in un corso di scolo lungo centotrentacinque chilometri. È una misura di emergenza, ma l’unica realmente sostenibile per il territorio italiano è rinaturalizzare i bacini fluviali, senza stravolgerli.

«Il Wwf sta portando avanti una grande opera di restauro del bacino del Po grazie al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), interviene Ferroni. Si tratta di «un progetto che permetterebbe inoltre di raggiungere gli obiettivi sulla strategia europea sulla biodiversità del 2030, con il raggiungimento di venticinquemila chilometri di fiumi rinaturalizzati». Tra i provvedimenti proposti dalla strategia europea è prevista, per esempio, la destinazione del dieci per cento delle aree agricole all’alta biodiversità entro il 2030. 

Oggi, secondo il Wwf, non riusciamo a raggiungere nemmeno il quattro per cento dell’obiettivo indicato. «Queste aree contribuirebbero a rinforzare la presenza organica nel suolo e creerebbero le condizioni per contenere gli impatti dei fenomeni meteorologici estremi come quelli avvenuti in Romagna nelle ultime settimane. Quel dieci per cento comprende infatti tutte quelle aree che il mondo agricolo considera non produttive, ma che producono servizi ecosistemici e aiutano l’ambiente tramite filari di siepi, piccoli stagni, le aree di esondazioni naturali dei fiumi», spiega Ferroni.

Dai danni ambientali alla crisi economica 
Tra i danni maggiori che ricorderemo per l’alluvione in Emilia-Romagna ci sono quelli economici, che non sono localizzati, ma riguardano l’intero settore ortofrutticolo nazionale. Come dimostrato anche dal rapporto Ispra “Transizione ecologica aperta”, «le aree agricole intensive sono quelle che registrano la maggiore perdita di biodiversità. L’area interessata dall’alluvione recherà dei danni significativi per esempio nella filiera dell’ortofrutta, come il mais e il grano tenero. 

In questo settore ci saranno danni difficilmente recuperabili: rischiamo di assistere nei prossimi mesi a un aumento dei prezzi sullo scaffale», continua Ferroni. Secondo Coldiretti, l’alluvione ha devastato oltre cinquemila aziende agricole e allevamenti in una delle aree più proficue del Paese, con una produzione lorda vendibile di circa 1,5 miliardi di euro. Alcuni esperti hanno avanzato poi l’ipotesi che la fragilità degli argini dei fiumi dipenda anche dai piccoli roditori acquatici, come istrici e nutrie. 

«Si tratta di specie che negli anni Cinquanta importammo dal Sud America e che creano tane in cui si insinua l’acqua, rendendo ancora più friabile il terreno. Bisognerebbe intervenire con delle reti metalliche, controlli mirati da parte della polizia idraulica e con delle leggi a difesa delle arginature», precisa Antonio Rusconi.

«Passata l’emergenza riusciremo a quantificare i danni, ma non possiamo continuare ad agire solo in un’ottica emergenziale. Abbiamo bisogno subito del piano di adattamento ai cambiamenti climatici che il ministero dell’Ambiente ha annunciato solo ora», ammette Ferroni, un dossier di trecentosessantuno punti fermo nel cassetto di quattro governi dal 2016. «Le buone pratiche agronomiche ci dicono che intervenire con la chimica è controproducente, l’Emilia-Romagna per fortuna è una regione che fino a ora ha spinto molto sull’agricoltura biologica, ha a disposizione risorse per recuperare i danni dei suoli agricoli», conclude Ferroni.