Morti, dispersi, sfollati. Più di ventiquattro comuni allagati a causa dell’esondazione di quattordici fiumi. Colate di fango, frane. Persone sui tetti salvate dagli elicotteri, acqua nelle piazze, nelle case e negli uffici. Treni fermi, tratti autostradali impossibili da percorrere, gran premio di Formula 1 a Imola cancellato e gare sportive annullate.
E ancora: scuole chiuse, persone evacuate, cittadine e cittadini bloccati in casa incollati ai notiziari e alle previsioni del tempo, nella speranza che lo strazio finisca presto. Ma consapevoli che le cicatrici rimarranno per sempre. Sembra quasi uno scenario apocalittico, ma è la realtà che si è violentemente abbattuta sull’Emilia-Romagna, reduce da un altro periodo di forti alluvioni (dall’1 al 4 maggio) nel Ravennate e nel Forlivese.
«In giro si sentono solo allarmi e le sirene delle ambulanze e della polizia. Sembra di essere tornati ai lockdown pandemici», ci racconta una ragazza di Rimini, città che comunque ha retto meglio di altri Comuni. A partire dagli anni Cinquanta, la frequenza e l’intensità delle precipitazioni più copiose sono aumentate sulla maggior parte delle terre emerse, e il cambiamento climatico indotto dall’uomo è «probabilmente» il principale fattore trainante: a scriverlo sono gli esperti dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc) dell’Onu all’interno dell’ultimo report.
Questa è l’A14 tra Faenza e Forlì pic.twitter.com/kFRsSql4JK
— L’Undici (@lundici_it) May 17, 2023
Una frase da imparare a memoria, perché le alluvioni in Emilia-Romagna non sarebbero esistite senza decenni e decenni di industrializzazione sregolata, emissioni dovute ai combustibili fossili e modelli produttivi (e di vita) contrari alle esigenze del pianeta. Negarlo significa non guardare in faccia la realtà e ignorare gli sforzi della scienza: uno studio della Cornell university, che ha analizzato circa novantamila studi, ha mostrato che il consenso sulla questione climatica mette d’accordo il 99,9 per cento dei climatologi del mondo.
Su Cesena, scrive il Corriere, in diciotto ore si sono abbattuti settanta millimetri di pioggia. Negli ultimi trent’anni, per rendere l’idea, la media dell’intero mese di maggio è stata di cinquantadue millimetri. A Faenza, già sott’acqua nella prima settimana del mese, gli esperti hanno registrato settanta millimetri contro una media mensile di cinquantasette.
Il territorio era già vulnerabile per via dell’alluvione di due settimane fa, e l’impatto delle piogge di questa settimana si è rivelato ancora più brusco. Alvei già al limite, poca acqua in falda ed esondazioni assicurate. «È stata la giornata e la notte più brutta della storia della Provincia di Ravenna, tutti i Comuni sono stati colpiti e i danni sono indescrivibili sia in collina, sia in pianura», dice a Radio 24 il sindaco di Ravenna, Michele De Pascale.
Ma cosa è successo, nel concreto, dal punto di vista climatico? E perché l’uomo è responsabile di queste tragedie? «A maggio, stando alle statistiche più recenti relative agli ultimi decenni, una cosa del genere non è mai accaduta (nella Regione, ndr), anche perché i due eventi sono avvenuti in modo ravvicinato. Le precipitazioni sono state grandi e copiose, ma non eccezionali: noi ora siamo abituati anche a duecento millimetri in dodici o ventiquattro ore. Il punto, qui, è un altro», spiega a Linkiesta Antonello Pasini, fisico del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) e professore di Fisica del clima all’università di Roma Tre.
Il tema chiave è relativo alla durata delle precipitazioni, non alla quantità d’acqua: «Le piogge sono andate avanti per giorni e, alla fine, il volume è stato notevolissimo. Dal punto di vista climatico, questa potrebbe diventare una sorta di “nuova normalità”». Il motivo è che il riscaldamento globale causato dall’uomo ha stravolto non solo le temperature, ma anche la circolazione del mar Mediterraneo.
Prima questo flusso spingeva quasi sempre verso ovest-est, mentre ora si posiziona lungo le direttrici nord-sud e sud-nord: «Siamo abituati a primavere molto variabili per via di questi flussi ondulati da ovest a est. Quando arriva un’onda positiva c’è bel tempo, quando arriva un’onda negativa c’è brutto tempo. Sono tutte condizioni che di solito, per via della classica variabilità primaverile, durano uno o due giorni», aggiunge Pasini, che poi va al nocciolo della questione.
«Adesso, invece, il riscaldamento globale di origine antropica ha fatto espandere queste onde verso nord e verso sud. Quando le onde sono più lunghe, risultano meno veloci e quindi rimangono sullo stesso punto per più tempo. Il risultato è che, al posto di una variabilità rapida, ci sono tre o quattro giorni consecutivi di pioggia». Le precipitazioni hanno quindi più tempo per sfogarsi su una singola zona, scatenando alluvioni anche in caso di piogge non particolarmente copiose.
Su un territorio come quello italiano, così fragile e così impreparato agli effetti della crisi climatica, le conseguenze risultano spesso tragiche. L’alternanza tra lunghi periodi di siccità e forti precipitazioni sottopone l’ecosistema a condizioni di stress che impongono uno stravolgimento degli approcci usati finora dalla politica, dalla scienza e da ognuno di noi.
Secondo l’Istituto per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), quasi il novantaquattro per cento dei Comuni italiani è a rischio dissesto idrogeologico e soggetto a erosione costiera. In più, ci sono circa otto milioni di persone che abitano in aree definite ad «alta pericolosità». Quanto accaduto in Emilia-Romagna non è semplice maltempo, ma un mix fatale tra cambiamenti climatici (causati dall’uomo) e scelte politiche orientate verso la cementificazione e l’edilizia selvaggia.