Il disastro in Emilia-Romagna è stato causato allo stesso modo dall’incuria del territorio e dalla crisi climatica. Sul primo fronte il dibattito nazionale si è spalancato all’istante, come una voragine in attesa di un punto di rottura è ripartita l’infinita conversazione sui problemi cronici che conosciamo. L’adattamento nel nostro Paese è all’anno zero, trattiamo il territorio come se non esistesse nessuna crisi climatica in atto. È importante guardare però anche all’altro fronte: cosa sta facendo l’Italia per la mitigazione del danno climatico?
Ha ragione chi dice che, oggi, il nostro Paese contribuisce al riscaldamento globale con solo l’un per cento delle emissioni globali. E solo su quelle possiamo intervenire direttamente, con la transizione energetica ed ecologica (e lo stiamo facendo ancora troppo poco). Ma esiste anche un lungo lavoro indiretto che si può fare sul rimanente novantanove per cento delle emissioni, e quel lavoro si chiama diplomazia climatica.
Su quel fronte, con l’avvento del governo Meloni, si è creato nel 2022 un vuoto politico a forma di Italia. Il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin è afono e assente, l’inviato per il clima Alessandro Modiano è stato congedato e mai sostituito, in Europa si combattono battaglie di retroguardia sull’auto elettrica e l’unica idea autonoma partorita dall’Italia è un’idea fossile, quella di trasformare il nostro paese in un hub del gas. Non benissimo, insomma.
Sulla diplomazia climatica del governo vale quello che si sussurrava già alla Cop27 di Sharm el-Sheikh: l’Italia è invisibile e forse è meglio così. In Egitto il ministro italiano era stato assente da ogni tavolo che avesse importanza, ha scelto di comportarsi come un figurante e così è stato percepito, lasciando il lavoro dei tecnici del ministero (tra i più bravi ed esperti al mondo) senza copertura.
L’unica funzione di supplenza era stata svolta dall’inviato per il clima, Alessandro Modiano, che non aveva un ruolo di governo come le controparti di Regno Unito, Usa, Cina o Germania, ma compensava con l’esperienza e il peso diplomatico. La sua figura era stata creata dal governo Draghi. Modiano si era dovuto districare dall’ego ingombrante dell’allora ministro della Transizione ecologica Cingolani e si era col tempo ritagliato uno spazio.
Al di là delle specifiche scelte in materia di clima, il G20 a guida italiana era stato considerato un ottimo punto di partenza e le figure di peso non mancavano. Per certi versi, anzi, erano troppe. Poi sono arrivati Meloni e Pichetto Fratin e il pieno è stato sostituito dal vuoto, un mese dopo c’era stato l’imbarazzo di vedere un ministro dell’Ambiente così smarrito in un vertice internazionale sul clima, agevolato solo dalla presenza del suo supplente Modiano.
Passa un altro mese e il supplente viene rimosso: non si è solo chiusa l’esperienza individuale di Modiano, ma anche quella dell’inviato per il clima, una carica apparsa e scomparsa nel giro di poco più di un anno. A differenza del precedente governo e di ogni altro Paese di peso nel mondo, l’Italia ha ritenuto che avere un figura di questo tipo fosse tutto sommato irrilevante. Il confronto del think tank Ecco Climate con le scelte degli altri paesi G7, di ogni colore e credo politico, è sconfortante. E nel 2024 la presidenza G7 tocca a noi. Teniamoci forte.
«Interesse nazionale» è una delle formule più usate in questi mesi di governo Meloni. E allora parliamone, ma davvero. I disastri in Emilia-Romagna illustrano quale sia il vero interesse nazionale, e quale sia quello di settori come l’agricoltura o il turismo: una rapida riduzione delle emissioni, perché il sacrificio che ha dovuto affrontare l’Italia a maggio è ancora quello di un clima solo 1,15°C più caldo dell’era pre-industriale.
La diplomazia climatica serve esattamente a evitare che questo aumento di temperatura finisca fuori controllo e che l’Italia debba affrontare gli eventi estremi di un clima più caldo di due gradi o di chissà quanto (i modelli divergono oggi tra varie sfumature di pessimismo). E così il grande paradosso è che l’Italia nel 2023 è stata il Paese europeo più colpito da eventi estremi ma è allo stesso tempo quello che meno fa sentire la sua voce sull’unico piano che servirebbe a mitigarli: la decarbonizzazione globale.
E intanto il calendario è fitto: nei prossimi mesi si discuterà degli aspetti concreti del fondo danni e perdite creato a Sharm (mentre il ministro era a Roma o Biella), ci saranno i negoziati intermedi dell’Onu sul clima di Bonn di giugno, e poi la Cop28 di Dubai, la Cop dei petrolieri che rischia di dare un colpo mortale alle prospettive di dimezzare le emissioni entro fine decennio.
Se le cose non cambieranno, ci presenteremo negli Emirati con un ministro commercialista del quale non si hanno notizie da mesi, senza un inviato per il clima, e con un progetto energetico che mira a trasformare l’Italia in hub del gas, cioè con la grande scommessa di costruire tutta la sicurezza energetica dei decenni a venire – con relative infrastrutture – su una fonte di energia che ogni organismo internazionale chiede di iniziare a dismettere.
L’ultimo elemento di contesto è che la Commissione europea è vicina alla sua scadenza, a giugno 2024 si vota per le Europee, l’insediamento sarà solo all’inizio del 2025, ci sarà un vuoto di potere nel quale emergeranno diversi protagonismi europei sulle politiche energetiche e climatiche. Difficile che l’Italia possa prendere una leadership di qualsiasi tipo e, come si diceva già in Egitto, forse è meglio così.