Alzare la voceI rischi dell’etichetta di “ambientalista” e le grida inascoltate degli adulti di domani

Cosa significa abbinare questa targhetta all’aggettivo “giovane”? Condannare delle azioni di protesta per una causa comune (e urgente) a non essere prese sul serio

Un presidio del 12 maggio davanti al Tribunale di Piazzale Clodio (Roma) in solidarietà con gli attivisti di Ultima Generazione processati per l’imbrattamento del Senato (LaPresse)

Le luci sulla Giornata Mondiale della Biodiversità (22 maggio) si sono accese nel cuore delle polemiche innescate dal blitz romano degli attivisti ambientali di Ultima Generazione. La realtà è che si sta innescando una gamma narrativa che ha del paradossale, non solo per capacità di svilire il gesto ma anche di svuotare di senso l’intero contesto.

Prendiamo ad esempio il testo con il quale il Corriere della Sera riporta la notizia. Cito il noto quotidiano per una questione di autorevolezza, ma il tono di voce è pressoché simile sulla maggior parte dei giornali e dei canali social. Dunque, il quotidiano di via Solferino scrive: «Con uno striscione per la campagna “Non paghiamo il fossile”, anche considerato quello che sta accadendo in Emilia-Romagna, i giovani ambientalisti si sono posizionati in piedi dentro alla Fontana, urlando “Il nostro Paese sta morendo”, tra gli insulti dei passanti e dei turisti».

Già “ambientalista” di per sé è un tag che identifica una categoria, e ogni volta che appiccichiamo un’etichetta non facciamo altro che confinare quello spazio di pensiero rendendolo avulso come una riserva indiana. Se poi lo abbiniamo sempre all’aggettivo “giovane”, non stiamo facendo altro che condannarlo a non essere preso sul serio. Ancora peggio: a essere mal tollerato come gesto privo di costrutto. Infatti, come dice la nota di cronaca, passanti e turisti non esitano a esprimere il proprio dissenso insultando coloro che compiono azioni di protesta per una causa che in verità è comune, ma che si fatica a ritenere condivisa.

Nel mainstream queste urla di allerta per un futuro che sta già facendo sentire il suo furore finiscono col diventare semplici atti vandalici commessi da ragazzini perditempo, che vengono a distogliere gli adulti da ben altre priorità. Intanto in Italia, come nel mondo, oggi le specie animali e vegetali si estinguono a un ritmo cento volte superiore a quello del passato. Secondo la piattaforma intergovernativa per la scienza e la politica sulla biodiversità e i servizi ecosistemici, circa un milione di specie animali e vegetali sono a rischio estinzione. Molte di esse potrebbero sparire entro pochi decenni.

Non a caso, l’11 maggio scorso il segretario generale delle Nazioni unite, António Guterres, ha lanciato alla comunità internazionale questo nuovo appello: «La biodiversità sta crollando esattamente come accade alla Terra. Un milione di specie è sull’orlo dell’estinzione. Dobbiamo porre fine a questa guerra incessante e insensata contro la natura: mettiamoci al lavoro per attuare gli impegni dello storico accordo raggiunto alla Cop15».

Alla politica e ai governi non mancano di certo conoscenze scientifiche, mezzi e quadri giuridici internazionali per agire. Il problema, però, è la carenza di volontà. Manca la pressante richiesta da parte dell’elettorato, quella tensione dal basso che spinge a dare risposte concrete. Ecco spiegate le esortazioni di Guterres quando dice: «Dalle scuole ai luoghi di lavoro, dalle comunità religiose ai social network, i cittadini del mondo intero devono alzare la voce». 

E cosa stiamo facendo noi? Non solo non stiamo raccogliendo questa esortazione. Non solo non ci attiviamo consapevoli del tempo che stringe. Continuiamo a bollare i dimostranti come “giovani ambientalisti”, ignorando i tempi e i modi a loro disposizione. Come se l’ambiente fosse un altrove indefinibile, come se non ci riguardasse, tutti, indistintamente. A chi giova questo nostro atteggiamento? Sappiamo, per esempio, che la metà del Pil mondiale dipende dalla biodiversità e, di conseguenza, anche la sopravvivenza della metà dei nostri investimenti?

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