La vittoria di Recep Tayyip Erdogan è stata accolta con iniziale freddezza dall’Unione europea. I primi messaggi di congratulazione nei confronti del presidente rieletto per la terza volta alla guida della Turchia sono arrivati in tarda serata, molto dopo rispetto a quelli dei più stretti alleati di Erdogan. Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, ha invitato il leader turco a rafforzare le relazioni tra Bruxelles e Ankara, mentre Ursula von der Leyen, presidente della Commissione, ha anche sottolineato l’importanza strategica dei rapporti con il Paese anatolico.
L’Ue d’altronde è stata molto cauta durante tutta la campagna elettorale, evitando di pronunciarsi sull’esito delle elezioni o su quale candidato avrebbe preferito vedere alla guida della Turchia nel prossimo futuro. La vittoria di Erdogan però rappresenta sia una buona che una cattiva notizia per l’Europa.
Altri cinque anni di autoritarismo
I rapporti tra Ue e Turchia sono diventati sempre più tesi negli ultimi anni, tra sgarbi nei confronti di von der Leyen, politiche estere aggressive nei confronti della Grecia e di Cipro e un atteggiamento ritenuto troppo conciliante nei confronti della Russia anche dopo l’invasione dell’Ucraina. Ma ad aver allontanato le due parti è stato anche il crescente autoritarismo di Erdogan, definito non a caso un «dittatore» (necessario) dall’ex primo ministro italiano Mario Draghi.
Sotto la guida del leader di Giustizia e Sviluppo (Akp), si è assistito a una limitazione costante delle libertà dei cittadini turchi, quasi del tutto privati del diritto di espressione e di protesta. In Turchia è pressoché impossibile organizzare una manifestazione e un tweet contro il presidente è sufficiente per finire sotto processo.
Non sorprende dunque che negli ultimi anni il numero di giornalisti, attivisti, avvocati o semplici cittadini indagati o condannati al carcere sia aumentato esponenzialmente. Sulla questione è intervenuta più volte anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha chiesto per esempio la scarcerazione di Selehattin Demirtas, ex leader del partito filo-curdo, dell’intellettuale Osman Kavala e di altri prigionieri politici. Nonostante le condanne dalla Corte, il governo turco non ha fatto nulla per rendere più giusto il suo sistema, ormai sotto il controllo del presidente.
L’Unione europea dunque dovrà avere a che fare per almeno altri cinque anni con un leader autoritario e pronto a far valere i propri interessi a discapito di quelli degli Stati europei, Grecia e Cipro in primis. Ma la vittoria di Erdogan non è solo una brutta notizia.
L’adesione resta congelata
La prospettiva di una vittoria dell’opposizione aveva riportato al centro del dibattito il processo di adesione della Turchia all’Ue, fermo ormai da diversi anni a causa della limitazione costante dei diritti, dell’erosione della democrazia nel Paese, degli alti tassi di corruzione, della crisi economica e del generale allontanamento dall’Occidente.
Kemal Kilicdaroglu, leader dell’opposizione, aveva promesso di riavvicinare la Turchia all’Ue e di risolvere nel giro di soli tre mesi il problema dei visti, garantendo così anche ai cittadini turchi il diritto di entrare in Europa tramite procedure semplificate. Molti leader europei però saranno stati a loro modo sollevati dalla sconfitta di Kilicdaroglu.
Attualmente la Turchia non rispetta i criteri di adesione all’Ue, ma l’entrata di una nazione così grande e a maggioranza musulmana nella casa europea spaventava non pochi Paesi ed è stata volutamente ritardata in passato, quando le prospettive erano migliori rispetto a quelle attuali. Per l’Ue dunque la riconferma di Erdogan vuol dire non doversi confrontare con un tema ancora molto spinoso e che avrebbe messo in difficoltà più di un governo europeo.
Un dittatore che (purtroppo) fa comodo
Ma la vittoria di Erdogan porta comunque con sé delle questioni da risolvere, prima fra tutte quella dei migranti. La Turchia ospita ancora quattro milioni e mezzo di siriani e a partire dal 2016 ha ricevuto sei milioni di euro dall’Unione per bloccare i flussi migratori diretti verso il Vecchio continente, ma la popolazione è stanca di questa situazione e chiede a gran voce l’allontanamento dei siriani dal Paese.
Il tema è diventato centrale anche in campagna elettorale, ma a puntare sul rimpatrio dei rifugiati è stato prima di tutto Kilicdaroglu, che con i suoi discorsi nazionalisti si è alienato una parte degli sostenitori, oltre ad aver deluso quei politici e di quegli analisti occidentali rimasti abbagliati dalla sua etichetta di «Gandhi turco». Una vittoria di Kilicdaroglu avrebbe probabilmente messo l’Ue di fronte a una situazione molto più incerta ed esplosiva rispetto a quella che si prospetta adesso con la rielezione di Erdogan.
Anche il leader dell’Akp ha chiaramente intenzione di rimandare indietro i siriani e di rinegoziare l’accordo sui migranti siglato anni fa con l’Ue, ma i suoi sforzi saranno diretti per lo più verso il ripristino delle relazioni con la Siria per rimpatriare “volontariamente” almeno un milione di persone nel più breve tempo possibile.
Per l’Unione la riconferma di Erdogan è una buona notizia anche per l’andamento della guerra russo-ucraina. Il leader turco, in alcune fasi, è stato l’unico in grado di mediare tra Mosca e Kyjiv e una sua sconfitta avrebbe rischiato di minare il ruolo di facilitatore ricoperto attualmente dalla Turchia.
Per l’Ue, insomma, è forse meglio avere a che fare con un presidente autocratico ma noto ed utile in determinati contesti che con un politico sconosciuto, sostenuto da una coalizione molto variegata e che avrebbe rimesso l’Unione di fronte al dilemma dell’adesione di un Paese musulmano.