In buona fedeLa diplomazia della speranza del cardinale Achille Silvestrini

Il saggio di Emma Fattorini, edito da Morcelliana, è un racconto ragionato e atipico di un protagonista del Novecento, in piena sintonia con Paolo VI e co-artefice della cosiddetta Ostpolitik

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Non manca anno che non ricorrano, oltre a quelle di rito, una o più commemorazioni importanti. Il che comporta, di volta in volta, una fioritura di celebrazioni e letteratura occasionale. Ma il rischio della routine e della convenzionalità è sempre dietro l’angolo. Chi, perciò, lo evita ha soprattutto un merito: restituire pieno e genuino significato all’anniversario, che consiste, lo spiegava bene Adriano Bausola, non solo nel recupero della memoria storica ma anche nella riflessione attualizzante di quanto si ricorda e omaggia. È quanto ha ultimamente fatto Emma Fattorini, autorevole studiosa, scrittrice, politica – dopo l’esperienza di senatrice nella XVII legislatura tra le fila del Partito democratico è attualmente vicepresidente di Azione – e, fino allo scorso anno accademico, ordinaria di Storia contemporanea alla Sapienza, il cui saggio Achille Silvestrini. La diplomazia della speranza (Morcelliana [Storia, 124], Brescia 2023, pp. 256, € 25), da venerdì nelle librerie, trova immediata ragion d’essere nel centenario del porporato romagnolo. 

Sbaglierebbe però, e non poco, chi pensasse di trovarsi di fronte a una mera biografia del cardinale Achille Silvestrini (Brisighella [RA], 25 ottobre 1923 – Roma, 29 agosto 2019) o a una raccolta di memorie sullo stesso. Frutto di lunga vicinanza amicale tra il prelato e l’autrice, che del primo trascrisse ricordi, valutazioni, commenti raccolti in anni di conversazioni, poi riletti e corretti dallo stesso intervistato, il volume è un racconto ragionato e atipico, irriducibile com’è a uno specifico genere letterario, della vita di un uomo essenzialmente del ’900, ma attento osservatore dei cambiamenti in atto nel nuovo millennio e partecipe di nuove sensibilità come la salvaguardia del pianeta. Di un uomo, che nella natia Romagna ricevette una solida educazione cattolica innervata da meditata laicità, si formò culturalmente e spiritualmente alla scuola di uno spirito libero quale il dotto Francesco Lanzoni, mosse i primi passi nel ministero e dalla natia Romagna trasse una visione di Chiesa in dialogo e in amicale convivenza, eppure mai complice, con il mondo circostante. Che, in quella parte d’Italia, significava innanzitutto laico e comunista. 

In pagine di finezza introspettiva la storica Emma Fattorini sottolinea quanto Silvestrini fosse consapevole di tutto ciò e dunque orgoglioso delle sue origini. Illuminante in tal senso il seguente passaggio: «Da Brisighella, cuore della Romagna anticlericale e repubblicana, diceva di avere imparato alcune cose fondamentali per la sua vita futura: La stima per l’uomo, il rispetto e il valore della lealtà umana; qui t’apprezzano per quello che sei, non per quello che dici o che hai. Infatti, don Achille, come preferiva essere chiamato, e non solo dagli amici più stretti, avvicinò per tutta la vita politici, intellettuali, artisti, diplomatici, giovani con curiosità e naturalezza, con un’empatia che diceva di avere ereditato dalla sua radice romagnola: Tutti quelli che mi cercheranno mi dovranno sempre potere trovare. Come nel mio paese, dove si giocava a carte con i repubblicani e i comunisti» (pag. 13). 

E fu nella sua Brisighella che grazie ai racconti di due illustri compaesani, i fratelli Gaetano e Amleto Giovanni Cicognani, entrambi nunzi apostolici, entrambi poi cardinali, il giovane Silvestrini apprese per la prima volta senso e peso di quell’arte specificamente ecclesiale di condurre affari di politica internazionale, per promuovere la fraternità e la pace tra i popoli, che è la diplomazia della Santa Sede. A Gaetano, in particolare, che, nunzio apostolico in Austria dal ’36 al ’38, lo era poi stato nella Spagna franchista fino al ’53 quando sarebbe stato richiamato a Roma come cardinale prefetto della Congregazione dei Riti, doveva le «prime lezioni di diplomazia sul rapporto Chiesa-mondo, sul senso di distinzione e autonomia tra Chiesa e Stato» (pag. 46), e un’allergia per i regimi confessionali, mai disgiunta dalla generale avversione per ogni forma  di totalitarismo. A lui, che l’aveva espressamente presentato, doveva inoltre l’ingresso in Accademia ecclesiastica e di fatto, una volta ammesso al servizio l’1 dicembre 1953, l’inizio della sua vita futura da diplomatico della Santa Sede e prelato di Curia. Assegnato quello stesso giorno alla “Farnesina vaticana”, ossia l’allora Sezione degli Affari ecclesiastici straordinari della Segreteria di Stato, don Achille vi incontrò l’uomo, la cui assidua vicinanza avrebbe segnato in maniera indelebile la sua storia personale: Domenico Tardini. 

Noto per concretezza e competenza, accompagnate da rudezza popolaresca e non minore generosità, il superiore di origini trasteverine gli insegnò «lo stile e lo scopo ultimo della diplomazia: un servizio alla vita della Chiesa, all’evangelizzazione, alla pace, all’intesa fra i popoli e all’elevazione delle nazioni più povere» (pag. 33), ne valorizzò le doti e la predisposizione a coltivare le relazioni umane, lo aiutò «a raggiungere “una pienezza umana”» (pag. 34). Mons. Tardini – che, una volta creato cardinale e nominato segretario di Stato da Giovanni XXIII, avrebbe scelto proprio il sacerdote romagnolo come segretario personale – gli aveva infatti chiesto di occuparsi di Villa Nazareth, da lui fondata nel ’46 per l’accoglienza di bambini indigenti e orfani di guerra tra i più intelligenti e la formazione degli stessi come leader del domani. Di quell’istituto, trasformato dall’arcivescovo Antonio Samorè in residenza per liceali e universitari, Silvestrini sarebbe stato anima e guida, nello spirito tardiniano, fino alla morte, ideando, realizzando e presiedendo due fondazioni a sostegno delle attività della stesso e per la gestione dei relativi beni. Istituto, che «oggi – ricorda l’autrice – è seguito dal segretario di Stato Pietro Parolin, anch’egli formatosi a quella “scuola”» (pag. 6).

1 Dicembre 1989, il cardinale Achille Silvestrini con Giulio Andreotti e Michail Gorbačëv (Archivio Villa Nazareth)

A ben guardare, ed è qui il valore più profondo delle pagine di Achille Silvestrini. La diplomazia della speranza, il vero protagonista di questo corposo saggio storico è un intero secolo, il ’900, in una con i successivi primi decenni del nuovo millennio. Un po’ come il ’600, secondo il giudizio di Luigi Russo, lo è per il capolavoro manzoniano de I Promessi Sposi. Nel volume Emma Fattorini ripercorre infatti un ampio arco temporale con gli occhi di chi entrò nel corpo diplomatico e al servizio della Curia sotto Pio XII, visse la stagione della riforma conciliare inaugurata da Giovanni XXIII, fu in piena sintonia con Paolo VI e co-artefice della cosiddetta Ostpolitik vaticana con un ruolo protagonistico nella fase di preparazione e di stipula della Dichiarazione di Helsinki (soprattutto per quel che attiene al punto VII sui diritti umani, contenuto nel cosiddetto Decalogo), assistette al brevissimo ministero petrino di Giovanni Paolo I, lavorò sotto Giovanni Paolo II perché la Chiesa cattolica tornasse a respirare anche con «il polmone orientale», diede prova di fedeltà a Benedetto XVI, mai rinunciando però a una visione sanamente critica, vide esultante i primi anni del pontificato di Francesco, leggendoli nell’ottica di un ritorno alle istanze conciliari.

Ne viene fuori, al contempo, un ritratto del cardinale Silvestrini null’affatto oleografico né inquadrabile in facili schemi. «Mai vicino al dissenso cattolico, senza essere peraltro né conservatore né moralista» (pag. 37), interlocutore attento «di intellettuali dubbiosi, politici delusi, artisti alla ricerca della fede, al punto che Francesco Cossiga l’aveva scherzosamente soprannominato “il cappellano dell’estrema”» (pag. 213) ma senza atteggiamenti equivocabili – proverbiale il suo «Ricordate che io non sono di sinistra, non lo sono mai stato» (ibid.) –, vicino mentalmente al pensiero di Paolo VI, di cui avrebbe sempre incarnato la cultura della mediazione, eppure ammiratore di un Pio XII quale pioniere della riforma liturgica e promotore di un’Europa della nazioni, don Achille resta una figura, osserva giustamente Emma Fattorini, «difficile da etichettare» (pag. 37).

Lo si rileva a ogni piè sospinto ma, soprattutto, nel capitolo decimo, laddove è maggiormente lumeggiato il profondo rispetto di Silvestrini per la laicità «quale criterio fondamentale dei cattolici impegnati in politica: di esso avrebbe dato costante riprova nei decenni in cui fu lui a tenere i rapporti con i maggiori esponenti della Democrazia cristianaC Lo si vide di fronte ai grandi scandali, come quelli finanziari, in cui il Vaticano si trovò coinvolto. Non a caso ricordava con particolare emozione la visita fattagli l’1 luglio 1982 dall’allora ministro del Tesoro Beniamino Andreatta, che l’indomani sarebbe intervenuto alla Camera sulla vicenda Calvi e sul coinvolgimento dello Ior a guida Marcinkus nel crack del Banco ambrosiano: la caparbia volontà dell’uomo di governo cattolico a denunciare tali condotte criminose richiamava alla sua memoria l’alto senso di laicità del fondatore della Democrazia cristiana Alcide De Gasperi, spinto dalla sua coscienza a “disubbidire”, non senza sofferenza, allo stesso Pio XII» (pp. 9-10). Per lui, d’altra parte, erano stati momenti difficili quelli in cui aveva dovuto subire, insieme con Agostino Casaroli, «le ingiuste accuse d’essere amici dei nemici della Chiesa, i comunisti. Anche allora non venne meno la sua convinzione che la prima fedeltà da osservare fosse quella al messaggio evangelico e che in essa venisse soprattutto testimoniata la verità, rendendo così il massimo servizio al pontefice stesso» (p. 10).

Ne emerge, dunque, come quella di Achille Silvestrini sia stata davvero una «diplomazia della speranza» secondo la definizione datane, in occasione della morte, dal fidato collaboratore, don Giuseppe Bonfrate. Il brillante sacerdote e teologo, di cui il porporato soleva dire ammirato: «Lui ha l’intuizione della luce» (p. 227), ne aveva allora spiegato il significato «nel senso del realismo cristiano di questa virtù, per piccoli passi e cose oneste e possibili». È quanto fatto da don Achille nel lungo arco della sua vita. È quanto raccontato in questo libro di Emma Fattorini, di cui, certamente, sentiremo a lungo parlare.

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