L’America non esiste. È un costrutto ipotetico, una mera semplificazione geografica. Si tratta di un continente troppo vasto e contraddittorio per potergli applicare un’etichetta con un nome. Se la chiamiamo America è solo per pigrizia o difetto di immaginazione. Per questo abbiamo bisogno che ce la racconti la grande letteratura, per questo ci mancherà Cormac McCarthy, morto l’altro ieri a ottantanove anni. Perché era uno dei più bravi a farlo.
Leggendo i suoi romanzi la sensazione era quella di conoscerne una parte. Non tutta, una parte. E nemmeno quella più rassicurante. La sua è l’America profonda, in senso geografico ma soprattutto esistenziale. Un’America oscura, brutale, insondabile. Quella di un quattordicenne che se ne va di casa perché «cova dentro un gusto per la violenza insensata», e inizia a vagare verso Sud tra paesaggi torridi e desolati finché non viene arruolato come cacciatore di scalpi. Questa è l’America di “Meridiano di sangue”, «il western che mette la parola fine a tutti i western», secondo David Foster Wallace; «il più grande romanzo mai scritto dai tempi di Faulkner», a detta del grande critico Harold Bloom.
Nato il 20 luglio 1933 a Providence, Rhode Island, McCarthy la sua America se la va a cercare come uno di quei mercenari malconci di cui scrive, uomini che scommettono sulla frontiera con un lancio di moneta: redenzione o dannazione. È lui stesso a dire: «Sono finito nel Sudovest perché sapevo che nessuno ne aveva mai scritto. Oltre alla Coca Cola, l’altra cosa conosciuta in tutto il mondo sono i cowboy e gli indiani. Ma nessuno prendeva l’argomento sul serio, da due secoli a questa parte. Ho pensato: ecco un buon soggetto».
In quegli anni vive ritirato in una baracca sperduta da qualche parte nel Tennessee, come un eremita letterario. In un certo senso, quindi, neanche McCarthy esiste. O meglio: Cormac McCarthy sembra un personaggio di Cormac McCarthy, e viceversa. Poco più di una leggenda. Indossa jeans con le pieghe e stivali da cowboy marroni con le fossette. Non tiene lezioni, non fa presentazioni o firmacopie. Quando i giornalisti gli offrono duemila dollari per un’intervista, lui rifiuta perché ha altre cose da fare. Eppure al tempo non ha nemmeno i soldi per comprarsi il dentifricio. Ha sempre saputo di non voler lavorare e che la vita è troppo breve per passarla a fare quello che gli altri ti dicono di fare. Tutto quello che gli occorre sono cibo, scarpe e un posticino tranquillo dove scrivere. «La mia giornata perfetta consiste nello starmene seduto in una stanza con un po’ di fogli bianchi. Questo è il paradiso. È oro puro e tutto il resto è solo una perdita di tempo», dirà anni dopo in una delle rarissime interviste concesse. E non gli interessano neppure le storie brevi: «Qualunque cosa che non ti occupi anni interi della vita e non ti spinga al suicidio mi sembra che sia qualcosa che non vale la pena».
La scommessa paga. Dopo “Meridiano di Sangue”, McCarthy porta avanti il suo personale ritratto dell’America cupa e selvaggia nella Trilogia della frontiera, il cui primo capitolo, “Cavalli selvaggi”, si aggiudica il prestigioso National Book Award nel 1992 e diventa un best-seller. Il suo stile è subito riconoscibile per via di una prosa muscolare, quasi sprovvista di punteggiatura. Non usa il punto e virgola, ma non usa nemmeno le virgolette nei dialoghi. «Credo nelle lettere maiuscole, nelle virgole occasionali, e questo è tutto», dice in un’altra delle poche interviste.
Attraverso una prosa che unisce l’asciuttezza ruvida di Hemingway al ritmo ipnotico di Faulkner, sembra dare al western una vividità e una forza evocativa fin lì propria solo del cinema. Parliamo di descrizioni come questa: «In lontananza fra i nuvoloni neri balenavano lampi silenziosi che sembravano saldature incandescenti tra fumi di metallo fuso. Pareva che riparassero un guasto nell’oscurità metallica del mondo».
Nonostante la fama crescente, McCarthy continua a mantenere uno stile di vita da fuggiasco e a raccontare l’America della frontiera. Nei primi Duemila butta giù la sceneggiatura di “Non è un paese per vecchi”, ma nessuno sembra essere interessato alla storia di un texano che va a caccia al confine col Messico ed entra casualmente in possesso di una valigetta contenente oltre due milioni di dollari, attirando sulle proprie tracce un killer sadico provvisto di una pistola ad aria compressa per il bestiame come strumento di morte.
In un mondo in cui il mainstream hollywoodiano cavalca ancora l’onda lunga e stanca dell’american dream e i film devono essere innanzitutto rassicuranti, è difficile convincere qualcuno a produrre una storia il cui vero protagonista è il Caso. E quella dipinta in “Non è un paese per vecchi” è un’America fatta di violenza, avidità, stupidità, ma soprattutto dominata da una casualità cieca e senza nome: è questo il vero volto del Male. Lui se ne frega, lo pubblica quasi tale e quale nel 2005 sotto forma di romanzo. Un paio di anni dopo i fratelli Coen decidono di adattarlo e la notte degli Oscar il film accumula sul loro tavolo un premio dopo l’altro come fossero lattine di birra. Quando arriva quello per la miglior sceneggiatura, Ethan Coen si gira verso Cormac e gli dice: «Beh, io non ho fatto niente, però me lo tengo».
Ma è una notte, più di altre, a entrare nell’aneddotica di McCarthy. È il 2003, sono le due o le tre del mattino. Lo scrittore si trova in una stanza di un vecchio albergo di El Paso e guarda fuori dalla finestra mentre il figlio dorme. La città è immobile, in lontananza si sente solo il suono solitario dei treni che arrivano e ripartono. Improvvisamente nella sua testa si forma l’immagine del mondo fra cinquanta o cento anni. Fuochi sulle colline e una distruzione assoluta. Ogni cosa ricoperta di cenere. Così inizia a pensare a suo figlio, che allora ha quattro anni, e si mette a scrivere qualche pagina. Tutto sembra finire lì. Poi qualche anno dopo riprende in mano quei fogli e si accorge che non sono semplicemente appunti: sono un libro.
Questo libro, “La strada”, parla di quell’uomo e quel bambino che si fanno largo in un’America post-apocalittica in cui l’oscurità è «cieca e impenetrabile. Un’oscurità che faceva male alle orecchie a forza di ascoltare». Le strade sono «affollate di profughi imbacuccati dalla testa ai piedi. Protetti da maschere e occhialoni, seduti fra gli stracci sul bordo della strada come aviatori in rovina. Carriole piene di cianfrusaglie. Carri e carretti al seguito. Gli occhi spiritati in mezzo al cranio. Gusci di uomini senza fede che avanzavano barcollanti sul selciato come nomadi in una terra febbricitante. La rivelazione finale della fragilità di ogni cosa. Vecchie e spinose questioni si erano risolte in tenebre e nulla. L’ultimo esemplare di una data cosa si porta con sé la categoria».
Si potrebbero dire tantissime cose su “La strada”. Che vince il Premio Pulitzer nel 2007. Che costruisce un nuovo immaginario, quello di “The last of us” e molti altri. Che se il suo autore ne ha conservate duecentocinquanta copie autografate come garanzia per il futuro economico del figlio, un motivo c’è. Ma la cosa più urgente e importante da dire è: leggetelo. Conosco persone che l’hanno iniziato una sera e sono andati dritti fino alla mattina successiva senza quasi sbattere le palpebre. Perché adesso che Cormac McCarthy è morto, e sulla tomba anche il suo nome ormai è solo un’etichetta, un costrutto ipotetico, una mera semplificazione anagrafica, c’è un pezzo dell’America – passata, presente e futura – che sta scritta solo là dentro, in tutti i suoi libri.