Pdnrr La sinistra tifa per il flop europeo di Meloni, ma a perdere sarebbe l’Italia

Il Partito democratico non fa nulla per dare un’alternativa pragmatica al clamoroso ritardo del governo sull’attuazione del Piano di ripresa e resilienza, e anzi spera nella catastrofe che minerebbe la credibilità di tutta la classe politica

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C’è un pezzo della sinistra politica e intellettuale che senza dirlo si augura che il governo Meloni naufraghi sulla attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza sul quale in effetti sta incontrando difficoltà notevolissime. Se l’esecutivo, che vuole fare tutto da solo, inciampasse su questo che è il principale impegno del suo programma è molto probabile che non riuscirebbe a sopravvivere e bisognerebbe inventare un altro governo tecnico di gente capace a realizzare le cose. Ma il prezzo del fallimento ovviamente lo pagherebbe il Paese. I cittadini che vedrebbero irrealizzati progetti fondamentali con l’Italia che davanti all’Europa e al mondo si dichiarerebbe inadempiente, incapace e sprecona di soldi che ci sono stati prestati e in parte regalati. Una catastrofe. 

Nessuno dovrebbe ragionevolmente augurarsi un disastro epocale di questo tipo, anche se comportasse la fine politica di Giorgia Meloni (non sapremmo bene neanche dire se ella se ne renda pienamente  conto) perché con la presidente del Consiglio finirebbe nel discredito tutta la politica. Ed è vero che non c’è alcuno che apertamente stia tifando per il fallimento del Pnrr. Ma quello che servirebbe è una prova trasparente del contrario: e cioè che la sinistra, i suoi leader, i sindacati, i giornali simpatizzanti dicessero che sono pronti a fare tutto ciò che è in loro potere per realizzare le riforme e le misure contenute nel Piano. 

Occorrerebbe cioè una iniziativa nazionale, un’assunzione di responsabilità, una disponibilità a dare una mano all’Italia. Il che non significherebbe fare da stampella al Governo. Anzi. Significherebbe snidarlo. Andrebbe fatto a maggior ragione che il governo esibisce una muscolarità autoreferenziale che davvero mal si attaglia alle fragili spalle di Raffaele Fitto, l’uomo su cui l’esecutivo sta scaricando tutto il peso di un’opera gigantesca quasi a voler precostituire un capro espiatorio se le cose non dovessero funzionare: e infatti non stanno funzionando, come si rende conto lo stesso ministro che un giorno dice una cosa e il giorno dopo un’altra con il risultato che ancora non c’è un cronoprogramma dettagliato delle cose da fare e, come ha detto Antonio Misiani, siamo «a carissimo amico» mentre Chiara Appendino gli ha fatto eco: «Questo governo ha speso un miliardo su trentatré previsti dal Pnrr per il 2023, è in un ritardo pazzesco».

Meloni ha cominciato a costruire falsi alibi e improbabili avversari, dall’Unione europea alla Corte dei Conti e domani chissà chi: un remake di Silvio Berlusconi che a suo tempo chiedeva di lasciarlo lavorare. Lei appare sprovvista del necessario know how e dello spessore culturale per giocare un ruolo attivo dentro questa vicenda eminentemente europea, il che non le ha impedito di avocare a Palazzo Chigi tutta la pratica provocando come si sa un indebolimento della governance che era stata messa in piedi da Mario Draghi. 

Nel Partito democratico si fa molta polemica – oggi ci sarà battaglia in Parlamento sulla fiducia al decreto sulla Pubblica amministrazione – ma non pare emergere alcuna proposta chiara. Eppure Enzo Amendola, la persona più capace di muoversi su questo terreno, ha detto chiaramente al Corriere della Sera che «se va in malora il Pnrr ci perderà la credibilità del Paese, anche sui mercati» e ha spiegato che «dopo sette mesi non c’è un pezzo di carta su cui lavorare». Ma come detto alle parole non segue alcun fatto. 

Il Pd si lecca le ferite della recente sconfitta elettorale mentre la vita va avanti e guarda con sospetto Italia Viva e Carlo Calenda quando accennano alla necessità di un approccio pragmatico. La sinistra un tempo criticava durissimamente i governi democristiani ma al tempo stesso li sfidava al confronto. Oggi la sensazione è di una critica talvolta a casaccio condita dalla fuga dal confronto. Per quattro voti in più.

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