Sarà solo un’impressione, ma i toni e i decibel della voce di Giorgia Meloni stanno aumentando ad ogni uscita pubblica. Conoscendola per esperienza professionale, è sempre stata così, fumantina, diciamo. Anche quando era all’opposizione. Una volta a Catania si incazzò con i ragazzi del movimento di Fratelli d’Italia perché non si erano allineati bene sul marciapiede dietro di lei: doveva fare delle dichiarazioni ai giornalisti, sotto la sede storica del Msi – quella tanto cara a Ignazio La Russa, nella quale campeggiava, e ancora campeggia, un’enorme insegna luminosa della Fiamma tricolore, quella storica e originale di Giorgio Almirante. Si occupò lei personalmente di sistemare fisicamente i ragazzotti indisciplinati dietro uno striscione militante, con la sua voce squillante che piace tanto al suo pubblico elettorale.
Comincia ad esagerare nel suo ruolo di premier. Non mancherà il tempo per capire se è più insicurezza o troppa sicurezza di fronte alle fragilità dell’opposizione.
Ha tuonato due giorni fa contro Riccardo Magi che aveva sollevato un innocuo cartello antiproibizionista come se avesse sfoderato una sciabola. Ha tuonato pure ieri alla Camera e al Senato. Si è scagliata contro Laura Boldrini, che l’aveva accusata di andare in Tunisia a trattare con un dittatore, perché la premier non accetta lezioni da chi andava a braccetto con il comunista Fidel Castro e i dittatori comunisti. Ha tirato in ballo il sociologo Domenico Masi, considerato «filosofo di riferimento dei Cinquestelle», che preferirebbe finire sotto una dittatura che sotto terra, gettando la maschera dei grillini, mostrando così il volto di chi non rispetta tutti coloro che in passato hanno dato la vita per la libertà e la democrazia, come Paolo Borsellino che non accettò la tirannia mafiosa. Giuseppe Conte ha avuto facile gioco nel ricordale che sui dittatori non è lui in difficoltà.
Insomma, il livello del dibattito di ieri in vista del Consiglio europeo del 29 e 30 giugno non è stato tra i migliori. Meloni non rinuncia a ogni forma di ruvidezza perché lei dice di non voler essere «paludata» e il giorno in cui non dovesse metterci la stessa passione di sempre sarebbe preoccupata.
Il problema non è la passione ma il fatto che comunque è la presidente del Consiglio. La passione e la foga urlata nei comizi dovrebbe essere controllata, soprattutto quando si accusa l’opposizione di amare i dittatori e i precedenti governi di avere lanciato l’Italia “a folle velocità verso la cancellazione dei confini nazionali arrivando a legittimare chi speronava navi dello stato italiano”. Non ha tutti i torti Matteo Renzi, che non si risparmiava quanto a passione e polemica quando era premier, nel sottolineare che l’intervento del presidente del Consiglio era sospeso tra due registri: quello di un impegno istituzionale e quello dei toni di propaganda, da talk show.
In più, nel merito, Meloni ha pattinato sul Mes, affermando che va discusso dentro il pacchetto delle nuove regole del patto di stabilità e del completamento dell’Unione bancaria. Per cui la premier considera inutile alimentare in questa fase una polemica interna, come se il problema lo avessero posto solo le opposizioni e non tutti coloro che si occupano del dossier, a cominciare dal commissario Paolo Gentiloni: «Mi fa specie che sul Pnrr si chiami in causa la lentezza del governo e lo faccia anche anche Gentiloni, che oggi dica che bisogna correre. Se si fosse vigilato di più in passato oggi si farebbe più velocemente». C’è tempo, la scadenza per presentare le modifiche al Pnrr è il 31 agosto, e in ogni caso si tratta di un Piano rispetto al quale la premier prende le distanze perché non aveva responsabilità quando è stato scritto.
Il governo sembra più in affanno che in attesa di una tranquilla riscrittura del Piano. E poi, attaccare il Commissario (italiano) alla vigilia del Consiglio europeo, subito prima di salire al Quirinale per incontrare il presidente Sergio Mattarella, non è proprio una mossa geniale, utile all’interessa nazionale.
Quello del doppio registro, istituzionale e passionaria, è la cifra con la quale Meloni alimenta la sua immagine, ben sapendo che è il secondo che più piace al suo elettorato, perché è a questo che parla direttamente quando si accendono le telecamere. E parla di inflazione e dell’aumento dei tassi di interesse che fanno crescere il costo dei mutui e dei finanziamenti alle imprese («La cura della Bce è più dannosa della malattia»). Ma è sempre dall’Europa che deve passare, da Gentiloni e la Commissione europea che non hanno intenzione di trattare scambi Pnrr-Mes. Da quel Consiglio europeo che si occuperà anche di sicurezza economica, del controllo e della difesa delle catene produttive, della propria autosufficienza.
Un’Europa che per Meloni deve proteggersi. «Qualcuno potrebbe bollare questo approccio autarchico – ha detto ieri in aula con audacia e un sorriso – ma in realtà è un approccio realistico per non esporre la Ue alle dipendenze straniere». Europa autarchica. Qualche parola in meno e toni più bassi non guasterebbero.