«Erdogan è un dittatore… col quale dobbiamo trattare». Col suo solito aplomb icastico Mario Draghi ha così liquidato a suo tempo la scabrosa questione dei rapporti tra le democrazie e i Paesi autoritari che occupano posizioni geopolitiche cruciali. Oggi, Laura Boldrini e Giuseppe Provenzano – che hanno criticato il governo per le sue intense trattative con il governo autocratico della Tunisia – farebbero bene a ricordarsi della lezione di Draghi, a meno che non intendano fare testimonianza di purezza d’animo invece che di politica di governo, tentazione non esente nel “nuovo partito” di Elly Schlein.
La stessa frase di Draghi infatti ora deve essere applicata a Saïd Kaïed – un dittatore, l’ennesimo, emerso dalle ceneri delle troppo decantate “primavere arabe” –, presidente della Tunisia, eletto sì col settantacinque per cento dei voti, ma poi autore di una radicale svolta autoritaria e dittatoriale a scapito dello stesso parlamento e soprattutto degli oppositori.
Il punto focale per l’Italia e l’Europa è che la Tunisia è una piccola nazione araba dalla quale provengono buona parte dei barconi carichi di clandestini e che sta rischiando di esplodere con un default disastroso, in preda a una crisi economica epocale. Esplosione che avrebbe conseguenze drammatiche per l’Italia e per tutto il Mediterraneo: una seconda Libia.
Un pericolo grande, a fronte del quale Giorgia Meloni, gliene va dato atto, è riuscita a coinvolgere Ursula von der Leyen, Mark Rutte e la Commissione Europea per un intervento economico e politico diretto che eviti il disastro. È la prima volta che l’Italia riesce in questo obiettivo che ha il solo precedente del coinvolgimento della Commissione Europea ottenuto da Angela Merkel nel 2016 per trattare con la Turchia di Recep Tayyp Erdogan su un finanziamento di cinque miliardi in cambio di un efficace freno alla migrazione verso l’Europa.
Va subito detto che quel meccanismo non sarà riproponibile in Tunisia, come ha duramente annunciato lo stesso Saïd Kaïed. Non c’è paragone tra la situazione economica e la possibilità di assorbimento dei profughi della grande e sviluppata Turchia (ottantacinque milioni di abitanti e un Pil di ottocentodiciannove miliardi) e quelle della piccola Tunisia (12,3 milioni di abitanti e quarantasette miliardi di Pil). Va anche detto che la trattativa tra l’Unione europea, il governo italiano e Saïd Kaïed non è e non sarà facile perché il dittatore tunisino per alzare la posta delle sue molte, troppe pretese e per negare concessioni, usa la tattica del too big to fail, le conseguenze del suo fallimento sarebbero ingestibili per tutto il Mediterraneo, e non intende cedere sulle riforme, in primis quelle democratiche, che chiedono l’Europa e soprattutto il Fondo monetario internazionale per concedere il fondamentale prestito di un miliardo e novecento milioni a cui Ursula von der Leyen ha aggiunto novecento milioni dall’Europa.
Trattativa scabrosa dunque, ma è probabile che, da qui a fine mese, per le pressioni italiane e europee si arrivi alla firma di un trattato tra Tunisia e Unione europea che comprenda l’impegno a frenare i barconi, così come plurimi accordi finalizzati allo sviluppo economico del Paese.
In questo contesto sorprende il totale silenzio del Partito democratico di Elly Schlein, fatto salve le dure critiche già citate di Laura Boldrini e Giuseppe Provenzano, che rimproverano a Giorgia Meloni di andare in aiuto a un dittatore. Critiche peraltro stranamente non estese a Ursula von der Leyen. Un silenzio ampliato dall’intervento di Marco Minniti, non più esponente del Partito democratico – ma di Leonardo – che invece tacitamente approva le grandi linee della strategia adottata da Giorgia Meloni, Ursula von der Leyen e Mark Rutte e saggiamente suggerisce di erogare trentamila permessi di soggiorno regolari a emigranti tunisini.
Di fatto la trattativa con la Tunisia è il primo passo per la definizione concreta, realpolitiker, non astratta, di quel “piano Mattei” al quale Giorgia Meloni lavora per dare respiro strategico a nuovi rapporti tra Europa e Africa. Un piano tutto ancora da definire tranne che nelle sue linee strategiche: l’Africa è fondamentale per una Europa che sinora se n’è disinteressata lasciando campo alla Cina, alla Russia e alla Turchia. Non solo in un’ottica difensivista – la collaborazione dei Paesi africani per contenere i flussi di immigrati irregolari – ma anche in una prospettiva di integrazione allo sviluppo.
Una sfida epocale, cruciale, che però non interessa minimamente un Partito democratico che oggi si preoccupa solo di smentire l’eredità e i consigli di Marco Minniti, uscito dal partito, e che ha una politica internazionale caratterizzata dal recente voto all’Europarlamento: sulla stessa mozione vota a favore, vota contro e si astiene.