Dei giudici a Roma hanno cancellato con un tratto di penna l’ergastolo a due “mostri” ritenuti colpevoli di uno degli omicidi che più avevano indignato la pubblica opinione negli ultimi tempi, quello del giovanissimo Willy Duarte.
Lo hanno fatto presumibilmente perché, avendo ascoltato le ragioni bene esposte dai difensori, hanno ritenuto che non c’era la certezza che fossero stati i biechi imputati “gemelli” a sferrare il colpo mortale che ha ucciso il povero Willy, ragazzo mite che si affacciava alla vita, ma che debbano comunque rispondere insieme agli altri due complici condannati a pene minori della rissa da loro scatenata e costata una vita umana.
Lo hanno fatto mettendo in conto la reazione sdegnata dei vari tribunali popolari. E qualcuno di loro lo ha fatto soffocando il proprio cuore straziato per il dolore personale e inconsolabile che lo accomuna alla madre del povero Willy: se dovessi dire cos’è un giudice, nella migliore accezione, non avrei esempio migliore. Un giudice e basta.
Quei giudici hanno applicato la legge e i principi costituzionali che richiedono pene proporzionate che non debbano precludere la speranza dei colpevoli di potersi riscattare.
E che la loro decisione sia stata rispettata dalla madre della vittima con parole nobili e dignitose, senza escandescenze a favore di qualche giustiziere televisivo, fa sperare che non tutto sia perduto in questo Paese.
È successo nello stesso palazzo giudiziario dove, qualche giorno prima, un altro giudice – ignoto ai più – ha respinto una richiesta di archiviazione formulata dai suoi autorevolissimi colleghi della procura – il capo e l’aggiunto – in favore del potente sottosegretario del ministro di Giustizia.
Per intenderci l’insigne «liberale» Carlo Nordio che aveva messo sotto inchiesta altri magistrati colpevoli di non aver tenuto in galera una presunta spia russa poi dileguatisi. Senza che ci sia stato uno straccio di camera penale, un Nicola Porro o un Riformista – inteso come il giornale – a protestare: macché.
In questo caso la gip di Roma ha ritenuto di non condividere l’originale e inedita tesi dei procuratori secondo cui Andrea Delmastro, autorevole avvocato e coltissimo giurista, non avesse capito che il contenuto di una informativa di polizia su detenuti in regime di massima sicurezza fosse notizia da non divulgare in giro.
Una tesi così originale, cui non aveva pensato neanche il difensore del politico che più sobriamente si era limitato a sostenere che non vi fosse sull’atto il vincolo del segreto d’ufficio e che, comunque, la condotta dell’indagato rientrasse nell’ambito delle sue insindacabili prerogative parlamentari.
La vicenda Delmastro ha costituito il pretesto per un duro attacco che il governo – e in particolare la presidente Meloni – ha sferrato a una “certa” magistratura accusata di voler svolgere una impropria forma di opposizione.
Le accuse di Meloni troveranno vasta eco e appoggio in una informazione ormai non più servile alla magistratura come ai tempi di Mani Pulite.
Allora a protestare erano i quattro gatti del Foglio di Giuliano Ferrara e del Sabato di Paolo Liguori. Ricordo un giovane cronista, Mattia Feltri, capace di criticare con coraggio, il quale oggi, ironia della sorte, vienr impalato dai soliti incartapecoriti del politicamente corretto per aver difeso un suo collega dai modi e dalle idee scriteriati (e guarda caso anche lui ai tempi una delle poche voci coraggiose contro le manette facili).
Oggi, diciamo la verità, criticare i pm e giudici non costa nulla: è uno sport diffuso in un Paese che ipocritamente piange Enzo Tortora e continua a sbattere mostri e conversazioni private (comprese quelle delle vittime) in prima pagina.
Ecco, non vorremmo che a causa di questa ritrovata e assai poco eroica libertà si trascurasse la posta in gioco che si cela dietro l’offensiva sferrata dalla destra e da qualche garantista d’accatto nel nome dei propri interessi o di quelli del datore di lavoro: la tenuta dello Stato di diritto.
Uno dei massimi giuristi viventi, Massimo Donini, garantista a ventiquattro carati e avvocato egli stesso, in una quarantina di pagine fitte su Sistema Penale ha spiegato ai pasdaran di Nordio i pericoli per la democrazia legati alla sparizione del reato di abuso ufficio, cardine della riforma giudiziaria propugnata dal guardasigilli e al vaglio – preoccupato – del presidente Sergio Mattarella.
Scrive che «una abrogazione integrale della fattispecie rischia di trasformarsi in una scelta autoritaria, che privilegia e protegge la pubblica amministrazione che con atti arbitrari prevarica i privati mediante un abuso di pubblici poteri».
Chi potrebbe negare che sia altrettanto e forse più grave di un’ingiusta condanna di un sindaco il sopruso ai danni di un cittadino cui venga di prepotenza negato un diritto sacrosanto? Non è garantismo allo stesso modo la tutela di chi viene angariato con condanne ingiuste ma anche con una delibera che gli nega dolosamente la libertà di lavorare? E se il criterio per una abrogazione debba essere la percentuale di assoluzioni, allora perché non chiedere la soppressione del codice penale visto che le sentenze liberatorie sono oltre il cinquanta per cento?
Come ci si può lamentare dell’inefficienza della pubblica amministrazione e nello stesso tempo renderla immune dal controllo di legalità? E si badi bene che il discorso vale per i magistrati stessi.
Abbiamo in visto in Polonia, Ungheria e Israele lo stesso canovaccio: l’attacco populista allo Stato di diritto per evitare ogni controllo e argine al potere esecutivo, magari mascherato dall’invocazione dell’autonomia della politica. In Israele, Paese di salde tradizioni liberali, la popolazione è scesa in piazza.
Certo che il Fascismo non si ripeterà: basta capire se siamo pronti ad accettare una forma di democrazia autoritaria di tipo nuovo è già all’opera in est Europa e con buone possibilità di allargarsi altrove.
Di volenterosi carnefici della democrazia, animati magari da pura vanità, è piena la drammatica storia del secolo scorso, vediamo di non ripeterla anche sotto forma di tragica farsa con le sue macchiette.