In un film abbastanza assurdo che Dino Risi girò dopo “Il sorpasso”, “L’ombrellone”, ci sono le vere immagini d’un agosto a metà anni Sessanta. Le immagini d’un mondo che ora sembra ricostruito con gli effetti speciali, se non si è abbastanza vecchi da averlo visto.
La Roma deserta che attraversava Enrico Maria Salerno andando a raggiungere la moglie al mare non esiste più: le città hanno smesso di svuotarsi con Ryan Air, col turismo di massa, con gli agosti di questo secolo in cui gli unici a restare inderogabilmente chiusi per almeno sei settimane sono i lavasecco.
La spiaggia di Rimini, le cui immagini mi fanno venire un attacco di panico, forse è invece ancora così, con una distesa di carne invece che di acqua. L’umanità fa un sacco di cose per me inconcepibili, ho smesso da decenni di farmi domande in merito (non posso passare la vita a chiedermi come sia possibile che v’interessi guardare il calcio), e tra queste c’è anche: andare in spiagge in cui c’è altra gente.
Certo, c’entra il fatto che andare nei posti che piacciono a me (che siano barche o spiagge private) costa molto, e o sei molto ricco o t’accontenti di fare tre giorni di vacanza ogni tre anni; se sei uno che pretende di farsi le sue brave due settimane ogni agosto, è plausibile che Rimini sia alla tua portata e la Polinesia no. Ma c’è anche il fatto che alla gente piace l’altra gente, le piace vedere la carne degli sconosciuti, uno spettacolo che io reputo raccapricciante.
Quand’ero abbastanza giovane da avere amiche che si preoccupavano di come stessero loro i vestiti, ogni anno c’era il dramma della prova costume. Un anno mi scocciai di assecondare le paturnie della compratrice di bikini di turno e sbuffai: ma come ti deve stare, ti sta come stai in mutande, come stai nuda. Ella passò gli anni successivi a ripetere questa frase come qualcuno le avesse decodificato la teoria della relatività, e io mi chiedo da allora come mai, una volta compreso che in bikini sei nuda, ella abbia continuato a mettercisi.
Guardate che non è normale. Non è normale che ciò che ci parrebbe inaccettabile per dieci mesi – entrare al bar e trovarci gente in mutande – poi sia considerato potabile in estate. Tu vai in spiaggia, un luogo pubblico, e la gente è mezza nuda. È mezza nuda nonostante non sia un’orgia. È mezza nuda nonostante non sia a casa propria. È mezza nuda e parla con estranei come fosse perfettamente vestita e presentabile e rispettabile, con lo stesso modo con cui in inverno da vestita parla coi professori dei figli o con l’idraulico.
Non è una questione estetica. Cioè, certo che lo è, ma non nel modo gerarchico in cui la state pensando voialtri (vi vedo) che siete lì che dite beh, se si denuda Guaia Sorcioni no, ma io Gwyneth Paltrow in mutande la guardo volentieri. Certo che le mie trippe sballonzolanti sono persino più raccapriccianti delle carni di chi si è applicata acciocché le sue carni fossero esteticamente piacevoli. Ma il punto è che comunque coperti è meglio. Il punto è che i vestiti sono un linguaggio.
È bislacco che questo linguaggio venga sospeso e poi riattivato, che conveniamo come società che non valga l’idea che essere nudi significhi qualcosa solo in alcuni mesi e luoghi (i luoghi contano: certi ristoranti al mare, che vogliono darsi un tono, vietano di pranzare in costume – ah!, allora siete d’accordo che è un modo di conciarsi impresentabile).
Alfred Hitchcock diceva che Grace Kelly era sexy perché apparentemente gelida, mentre «la povera Marilyn» aveva il sesso scritto in fronte. Hitchcock era uno stronzo, ma come frequentemente accade agli stronzi aveva ragione: se sei già in mutande, dov’è la seduzione, dov’è il mistero, dov’è il desiderio?
Non sono più (da decenni) abbastanza giovane da rimorchiare in spiaggia, e quando lo ero probabilmente non ci riflettevo, ma mi fa molto ridere l’idea di due che si conoscano al mare, in costume da bagno, organizzino un’uscita, e passino la cena a desiderare di strapparsi i vestiti, cioè non di approdare a una condizione che d’inverno sarebbe un obiettivo chissà se conseguibile, ma di ritrovarsi daccapo nella modalità nella quale già si trovavano quando si sono detti come si chiamavano. Riuscirò a vedere in mutande quella che ho già visto in bikini? Invero una grande sfida.
Il sindaco di Monfalcone, Anna Maria Cisint, ha scritto che «La pratica di accedere sull’arenile e in acqua con abbigliamenti diversi dai costumi da bagno deve cessare». A parte che si accede a, e non su. A parte che non riesco a prendere sul serio questa notizia perché ripenso a quella battuta di Paolo Rossi («Dici “com’è triste Venezia”? Non hai mai visto Monfalcone»).
Il sindaco ce l’ha con le musulmane che vanno in spiaggia col burqa, dice che «comportamenti lesivi della rispettabilità e della dignità necessaria nella frequentazione di questi luoghi pubblici incidono negativamente nell’attrattività e nelle ricadute per i gestori dei servizi» (sindaco, era qui che ci andava «su», si incide su, non si incide in, sindaco, perché l’istruzione obbligatoria l’ha lasciata indietro?).
Implica, immagino, che io veda una tizia coperta (non so, Afef, che nelle foto al mare ho sempre visto in canotta e pantaloncini, il che ne fa la mia unica compagna di spiaggia possibile) e dica ah no, allora a prendere il cremino al bar di questo stabilimento non ci vado.
E io ci posso pure credere. Posso credere che ci sia un tipo di clientela che la bagnante in burqa non la vuole vedere. Solo che il divieto di coprirsi include anche me (che sono grandemente atea con l’eccezione delle magliette di James Perse cui sono devota per la spiaggia) e Afef e Nigella Lawson e tutte quelle che in mutande ci si fanno vedere solo da quelli dai quali hanno scelto di farsi vedere in mutande.
Nel Novecento, mia madre prendeva il sole senza reggiseno. Aveva delle bellissime tette, ma era uno spettacolo straziante, perché in quello spogliarsi più del necessario vedevi sempre il bisogno di épater, di rimarcare che era empancipata, di far dimenticare che veniva dal profondo sud.
Era Assunta Patanè (la Vitti della “Ragazza con la pistola”, lo specifico perché so che avete Google rotto), e io che ero nata tra il Dams e l’eroina e il punk e l’Aids la guardavo con compatimento indossando il mio accollato costume intero. È passata una vita, è il 2023: veramente dobbiamo ancora dimostrarci emancipate smutandandoci?