La miglior notizia marginale dell’ultima settimana stava in una delle mille interviste intorno alla fine di Succession, e faceva più o meno così: poi Sarah è rimasta incinta, e quindi abbiamo incorporato la gravidanza nella storia.
Era un dettaglio che ci diceva che quella telefonata sull’amniocentesi della quarta puntata, quel dettaglio che poi per molte puntate era stato accantonato, quella rivelazione che avevamo voluto leggere come fondamentale e determinante nella scelta finale di Shiv, quella era una soluzione di sponda, una scena girata in fretta e furia e appiccicata alla storia dopo che un’attrice era rimasta incinta senza avvisare.
Era, nel ventunesimo secolo, qualcosa che ci diceva cosa dovrebbe essere una gravidanza in questo secolo: un cascame di quando le donne non potevano fare altro che riprodursi, un accidente marginale, un hobby che si può o no scegliere tra milioni di possibilità.
Poi viviamo nel mondo, e sappiamo che non è così. Sappiamo che l’emancipazione è in un momento di risacca, e la mistica del femminile è tornata agli anni Cinquanta, e le ragazze hanno nei confronti del matrimonio e dei figli un atteggiamento che avrebbe fatto rabbrividire non solo le loro madri ma pure le loro nonne (madri e nonne che ora assecondano figlie e nipoti perché hanno il terrore di non essere in sintonia col presente, ma ai loro tempi erano assai più emancipate, probabilmente perché avevano il patriarcato vero da cui liberarsi, mica dovevano inventarsi problemi quali l’identità di genere).
Quando mi voglio deprimere rispetto all’andamento del presente, vado a guardare le storie Instagram d’una trentenne romana sposata con un militare americano. Sposati già negli Stati Uniti, e ottenuta lei finalmente la carta verde, c’è ora da eseguire quella che sarebbe una formalità: la replica delle nozze in Italia.
Solo che la formalità è totalizzante quanto lo sarebbe stata in un secolo in cui il matrimonio era l’unica ambizione e possibilità per una femmina. Una ragazza cresciuta in una capitale occidentale, che si è laureata, che è andata a vivere all’estero, che dovrebbe avere tutte le caratteristiche che ci parlano di apertura mentale, è da mesi monotematicamente isterica circa la scelta del fiorista e simili amenità.
Spiega per minuti e minuti che deve fare tutto in soli tre mesi (ci vuole meno tempo e dedizione per la pace in medioriente), e che sì, ha lasciato per ben tre mesi solo in America l’inutile pezzo di carne con cui è sposata, ma è un sacrificio che deve fare per realizzare questa cosa importantissima per loro. Cosa importantissima per loro: scegliere i canapé.
Prima dei social, io credevo che questo pezzo di società non esistesse più. Credevo che l’ultima donna adulta a non avere una carriera (solo se non hai una carriera, ma neanche un impiego qualunque, puoi andartene tre mesi in un altro continente a organizzare una cerimonia di nozze) fosse stata mia madre, che però era nata in Molise durante la seconda guerra mondiale e insomma nessuno si aspettava fosse Gloria Steinem o Miuccia Prada. Credevo che la mistica della maternità e quella del matrimonio fossero pezzi di modernariato. Com’ero ingenua.
Due settimane fa era la festa della mamma, e la scrittrice Melissa Panarello ha scritto su Facebook alcune ovvietà. «Un cane, un gatto, un’amica, un amico, una persona amata, un libro da scrivere o uno da leggere, un’idea, un progetto, non potranno mai essere figli e questo puoi saperlo solo se i figli li hai […] Quindi buona festa della mamma a tutte le donne che hanno figli, perché madre alla fine è solo questo, per le altre meravigliose esperienze umane esistono altri nomi».
Se avessi letto questo post appena era stato pubblicato, avrei pensato che Panarello delirava: come sarebbe, puoi saperlo solo se i figli li hai? Per saperlo non basta essere madrelingua? Sì, certo, esistono disturbate che si definiscono mamme dei loro cani (che loro chiamano: pelosoni, bambini pelosi, e altre disturbatezze), ma per il resto siamo tutte piuttosto consapevoli che madre è una che ha dei figli.
Poiché il post l’ho letto solo dopo che ne era nata una polemica infinita, con infiniti post di infinite scrittrici e infinite risposte (se la letteratura fosse viva quanto la determinazione a dirsi madri, vivremmo a Bloomsbury), sono stata costretta a prendere atto che le donne del ventunesimo secolo meno hanno figli e più hanno la mistica della maternità.
«Il padre dei miei figli è molto materno ma non è la loro madre. Mia madre è una stronza ma è mia madre», scriveva Panarello il giorno dopo, con l’esasperato ennui con cui tocca ripetere ovvietà in questo secolo. Le donne non hanno il cazzo, le madri hanno i figli, se lascio cadere questo bicchiere la forza di gravità lo sfracella a terra. E invece.
«La tua posizione è violenta nei confronti, ad esempio, di tutte le donne che non sono riuscite a fare figli ma avrebbero voluto, e poi sono state madri in altri modi. Non hai nessun diritto di sminuirle, né di sminuire chi […] ha adottato animali in difficoltà che sarebbero morti». Lo scrive, in risposta a uno dei post della Panarello, Viola Di Grado, anch’ella scrittrice e, desumo, disposta a definirmi étoile per non essere violenta nei confronti del mio desiderio di ballare sulle punte.
«Che diritto ti toglie chi è madre di un canarino», vibra una finalista allo Strega, e non capisco bene se il riferimento letterario siano le madri dei draghi di quel fumettone recente, o Rhett Butler che dice a Rossella «una gatta è miglior madre di te». Volevamo il pane e le rose, abbiamo ottenuto la via veterinaria alla maternità umana.
Due settimane più tardi, il dibattito ancora non si è sedato (l’eccesso di tempo libero è la più gran piaga sociale di questo secolo: spero che l’inventore della lavasciuga si senta in colpa). Lunedì, un’altra scrittrice (dell’eccesso di scrittrici non saprei invece a chi dare colpa) spiegava senza mettersi a ridere che Jane Austen in una lettera si riferiva a “Orgoglio e pregiudizio” come «il bambino».
Ma tu pensa. Una donna nata nel 1775 non aveva, per le opere d’ingegno d’una donna, altro riferimento che non fosse l’unica cosa che le donne potevano fare nel 1775, cioè partorire. E noialtre, duecento e spicci anni dopo, soffriamo della stessa povertà lessicale. (Con quella di cento e spicci anni dopo che diceva che le donne «o fanno figli, o fanno libri» come la mettiamo? Fateci sapere: vi percepite più madri o scrittrici, dovendo scegliere?).
Nel frattempo Sarah Snook, che non usava Instagram da cinque anni, ha postato una foto di lei che guarda la puntata finale di Succession. Si vede la nuca d’un bambino in braccio a lei. Non può avere un anno, giacché Snook era incinta alla première, tre mesi fa. Ma potrebbe avere due mesi. Quale che sia la sua età, non costituisce una notizia: era visibilmente incinta, abbiamo studiato alle elementari (se le abbiamo frequentate prima che la biologia divenisse percezione soggettiva) che non si resta incinte a vita, prima o poi quel feto diviene bambino. E invece.
E invece ieri tutti i giornali americani titolavano breaking news, Sarah Snook ha partorito. Ha fatto una cosa che fanno anche le gatte, e noi ce l’eravamo persa. Meno male che c’è Instagram, a colmare le lacune del giornalismo contemporaneo.