«Infine, una doglianza». Accade, a volte, che esistano i fuoriclasse. Due ore e mezza dopo, la presentazione dei palinsesti Rai finisce evocando Fiorello, la cui fuoriclassitudine non si sa bene se catalogare come un problema o un’opportunità.
Due ore e mezza prima, aveva parlato Vincenzo De Luca (la presentazione si svolgeva alla sede Rai di Napoli), la cui doglianza riguardava il «capraio afghano, cammelliere yemenita» (Mauro Corona) abitualmente ospite della Berlinguer che non avrebbe più potuto vedere nel palinsesto autunnale.
Come prosegui dopo un fuoriclasse? Cosa fai la volta che trovi uno che sa usare le parole, in un secolo in cui nessuno più sa usarle? Come gli costruisci intorno due ore di convegno, di trasmissione, di serata, di performance?
«Io non sono un gran ottimista: il 21 giugno dico “tra poco è Natale, l’estate è finita, si accorciano le giornate”». Giovedì sera, mentre il ceto medio riflessivo romano era allo Strega, quello bolognese era a sentire Francesco Guccini e Matteo Zuppi. Come ti organizzi quando hai due fuoriclasse della retorica a conversare su un palco? Ringrazi il destino che facciano tutto loro o gli allunghi intorno il brodo?
Guccini considerava l’estate finita da due settimane, diceva di non ricordarsi se il De senectute l’avesse scritto Seneca o Cicerone, «ma se lo incontro lo meno», evocava quella sua zia morta di parto, «l’ho raccontato a un giornalista, e con la lucidità tipica dei giornalisti ha scritto che era morta di fame», ma per fare alla platea il dono dell’essere un sopravvissuto di quando gli intellettuali sapevano usare le parole doveva farsi largo in una serata senza senso.
In cui le domande gliele faceva un attore, uno che in una serie comica solo Pietro Sermonti potrebbe interpretare, che strizzando ben bene il diaframma faceva dieci minuti di premesse che ci rendessero evidente che alle medie aveva buoni voti, citava ridondante letteratura ed etimi in sanscrito per poi arrivare a: che cos’è per lei la memoria?
Quando non era il Marzullo col diaframma, erano gli universitari che leggevano un catalogo di citazioni con dizione da arresto (non ho niente contro l’accento napoletano, va benissimo per leggere la citazione da Via Gemito, meno se interpreti Ponzio Pilato dialogato da Anatole France).
Oppure i carneadi che, nello stesso chiostro della basilica di Santo Stefano, erano stati filmati mentre cantavano canzoni di Guccini: sei in un chiostro seduta davanti a Guccini e, invece di sentirlo parlare, devi ascoltare gente che fa il suo karaoke filmata con effetto straniante nello stesso posto in cui siete ora. Ma perché? Quand’è che siamo diventati tutti aspiranti autori televisivi? Quand’è che abbiamo smesso di scansarci e fare spazio ai fuoriclasse?
Intanto, allo Strega, Geppi Cucciari era l’unica che aveva letto i libri. È commovente vederla intervistare autori su libri che non solo ha così evidentemente letto ma sui quali le sono persino venute delle autentiche curiosità (se non sapete quanto sia raro, non vi hanno mai intervistati; se non notate la differenza, siete il pubblico medio).
A un certo punto, però, è accaduto che, tra le assurde figure di contorno che ha dovuto intervistare (premio della giuria alla più lunare: quella che aveva vinto il concorso «indovina la cinquina dai disegnetti collegati agli autori»), ci fosse il ministro della Cultura.
Il quale dice dei cinque libri finalisti «Proverò a leggerli». Cucciari fa una scelta interessante: si limita a rimarcare che ah, quindi non li ha letti. Non infierisce chiedendo: scusi, ma lei non è tra coloro che votano per lo Strega?
Ma quello, meschino, s’incarta (senza che ce lo dicesse lui, non avremmo mai immaginato che votasse per lo Strega. Chissà se ha votato la Postorino o se ha fatto come quegli autori Feltrinelli che hanno pensato «se vince lei quest’anno poi non vincerò mai io in un prossimo futuro»).
S’incarta come noialtri alle interrogazioni a sorpresa di quand’eravamo giovani e ciucci, «in banchi sui quali era scolpito: si assicura la scoliosi» (è sempre Guccini nel chiostro, Guccini che intanto citava Orazio in latino e mandava al diavolo la prof che lo rimandava tutti gli anni).
Sangiuliano s’incarta e dice no, li ho letti perché ho votato, ma adesso «voglio, come dire, approfondire questi volumi».
Forse Cucciari a quel punto infierisce con «Oltre la copertina» perché ha piglio sardo, o forse perché, avendo invitato la Meloni a Un giorno da pecora negli anni in cui nessun altro se la filava, si è guadagnata abbastanza crediti da essere intoccabile anche se le maltratta i ministri.
Forse Sangiuliano i finalisti dello Strega li ha letti tutti, e sta solo facendo contenti i giornali, che quando possono titolare «gaffe» sono persino più gongolanti che quando titolano «bufera social».
«L’inferno è quando sei solo con te stesso», dice Zuppi, e se il lettore medio avesse una qualche familiarità con quella pièce in cui l’inferno sono gli altri ci sarebbe almeno un giornale che titola «Zuppi, il dissing di Sartre».
Ci ripenso la mattina dopo, guardando la presentazione dei palinsesti Rai, dove dicono che non sanno bene cosa sarà di Fiorello, giacché lui sostiene che il suo programma – quello che va in onda alle sette di mattina e costa come Sanremo – si può fare solo da via Asiago, coi residenti che protestano perché si sono scocciati d’essere svegliati alle cinque per permettere alla Rai di dire che un milione di spettatori costituisce un grande successo.
L’inferno è avere il varietà sotto casa all’alba perché il massimo fuoriclasse dello spettacolo italiano non vuole misurarsi in prima serata e permettere a quelli che non vedono l’ora di titolare «flop» di scrivere che nella prima serata del 2023 i tredici milioni della prima serata del 2011 se li sogna. L’inferno è che meno i numeri ormai significano qualcosa più ne hanno paura quelli che potrebbero permettersi di non averne.
L’inferno sono gli studenti di Lettere che dicono la poesia di Natale invece di farci ascoltare Guccini, l’inferno è dover bere il liquore d’un colore improbabile se vinci lo Strega ed esserti sbattuta tanto per poi non vendere più copie se non lo vinci.
Il paradiso è Stefano Coletta, che nessuno ha capito bene che ruolo abbia adesso in Rai, ma per fortuna hanno capito che è indispensabile nelle conferenze stampa, dove dice «pràmtàim» e che quella di Caterina Balivo è «una ritornanza», ed è quasi meglio che guardare una nuova imprevista puntata di “Succession”.
Non ci speravo più, pensavo ormai di dovermi rifugiare nei classici, di dover rivedere in eterno Coletta che presenta la dozzina dello Strega dicendo che in libreria l’aveva molto colpito la copertina di “Come d’aria”, poi era tornato a casa, aveva visto il lancio d’agenzia che annunciava la morte dell’autrice, e quindi era tornato a comprarlo, e come si fa a non apprezzare la fuoriclassitudine di uno la cui idea di elogio è: bella la copertina, ma se non moriva mica la compravo.
Sono stati giorni impegnativi per il ricreativo e per il culturale, quindi se permettete «Ritorno al mio 21 giugno, che purtroppo è già passato, e tra poco vi dirò: buon Natale».