Le prime testimonianze accertate di attività natatorie si trovano nel bel mezzo del deserto. Da qualche parte in Egitto, non distante dal confine libico, sull’altopiano remoto e roccioso del Gilf Kebir nel Sahara, si vedono dei nuotatori che procedono a rana lungo le pareti di una roccia. La Caverna dei Nuotatori, scoperta dall’esploratore ungherese László Almásy nel 1933, custodisce una collezione di pittografie neolitiche raffiguranti alcuni uomini in una serie di pose subacquee. Gli archeologi fanno risalire l’opera ad almeno diecimila anni fa. All’epoca della scoperta di Almásy, l’idea che il Sahara non fosse sempre stato un deserto era piuttosto radicale.
Le ipotesi di un cambiamento climatico a cui imputare il passaggio da un ambiente temperato a un deserto brullo, oltremodo arido, erano talmente innovative che l’editore di Sahara sconosciuto, libro di Almásy del 1934, si vide obbligato a inserire delle note in cui prendeva le distanze dalle posizioni sostenute nel volume. Ma i dipinti convinsero Almásy stesso che, un tempo, l’acqua doveva essere stata un elemento naturale presente proprio nelle immediate vicinanze della grotta, che i nuotatori stessi fossero gli autori dei disegni e che un lago lambisse i loro piedi mentre lavoravano.
Dove oggi c’è un mare di sabbia, un tempo c’era una distesa d’acqua. Mentre uno dei due ambienti era vita liquida, l’altro appariva come la sua antitesi riarsa, granulosa, ma i due in realtà erano connessi, rifletté lo scienziato. Naturalmente, Almásy aveva ragione.
Decenni più tardi, gli archeologi avrebbero scoperto fondali lacustri ormai prosciugati poco distanti dalla grotta, spoglie di un’èra in cui il Sahara era verdeggiante. La sua soluzione al mistero di quei nuotatori nel deserto avrebbe trovato conferma anche grazie al cospicuo numero di prove geografiche indicanti la presenza di un paesaggio un tempo punteggiato di laghi preistorici, nonché alla straordinaria scoperta di ossa di ippopotamo insieme ai resti di tante altre specie acquatiche, comprese tartarughe giganti, pesci e mitili. Quel periodo divenne poi noto col nome di Sahara verde o periodo umido africano.
Non molto tempo fa, su un vecchio numero di «National Geographic», ho letto di un paleontologo di nome Paul Sereno che aveva ulteriormente corroborato l’intuizione di Almásy. Nell’autunno del 2000, Sereno era sulle tracce di ossa di dinosauro in un’altra zona del Sahara, al confine sud, nel Niger ancora poco battuto e soggetto a conflitti. In pieno deserto, a circa 200 chilometri dalla maggiore città del paese, Agadez, uno dei fotografi della spedizione s’inerpicò su per un remoto gruppo di dune e s’imbatté per caso in un ricco giacimento di scheletri. Ma in quel caso le ossa non appartenevano né a dinosauri né a ippopotami.
Le dune di sabbia spazzate dal vento restituirono quelli che a tutti gli effetti erano centinaia di resti umani, inframezzati da scarti di ceramiche preistoriche risalenti ad almeno diecimila anni prima. Alcuni frammenti erano solcati da linee ondulate; altri dipinti con la tecnica del puntinismo. Il luogo di sepoltura, ribattezzato dagli scienziati Gobero, nome Tuareg della zona, era il più grande e più antico cimitero dell’Età della Pietra rinvenuto fino a quel momento. A quanto pare, il Sahara verde un tempo era stato il luogo più adatto a ospitare i nuotatori della preistoria.
Da “Perché nuotiamo” (66thand2nd), di Bonnie Tsui, pp. 304, 18€