Mateusz Morawiecki e Viktor Orbán erano arrivati combattivi a Bruxelles. Nell’ultimo Consiglio europeo prima della pausa estiva, Polonia e Ungheria volevano rimettere in discussione l’accordo raggiunto sulla riforma della politica migratoria dell’Ue, che, tra le altre cose, prevede ricollocamenti di richiedenti asilo fra i Paesi dell’Ue, evitabili soltanto con il pagamento di ventimila euro per ogni migrante.
La questione dell’unanimità
«Metteremo il veto al meccanismo dei ricollocamenti forzati», dice il primo ministro polacco al suo arrivo. Il suo omologo ungherese pubblica persino un video che è un attacco frontale alla Commissione europea, accusata «di essere in bancarotta» per la richiesta di aumentare il budget dell’Ue annunciata qualche giorno prima.
I due sono sul piede di guerra per quanto accaduto l’8 giugno a Lussemburgo, quando i ministri dell’Interno dell’Ue avevano faticosamente raggiunto un’intesa su due file cruciali del Pact on Migration, da negoziare ora con il Parlamento comunitario.
Polonia e Ungheria avevano votato contro, ma erano stati sovrastati dal resto dei Paesi in una votazione tenuta a maggioranza qualificata: per l’approvazione serviva cioè il voto favorevole del cinquantacinque per cento degli Stati membri con almeno il sessantacinque per cento della popolazione totale dell’Unione.
Il voto a maggioranza qualificata sulle questioni migratorie è previsto dai trattati dell’Ue, ma polacchi e ungheresi rivendicano un orientamento politico in voga negli ultimi anni, in cui si è sempre cercato di raggiungere l’unanimità sul tema.
«È necessario trovare un consenso sul regolamento Dublino per riformarlo sulla base di un equilibrio tra responsabilità e solidarietà», si legge in effetti nelle conclusioni del vertice dei capi di Stato e di governo del giugno 2018. Ed è vero che nella scorsa legislatura il Consiglio ha rinunciato a portare avanti la riforma della politica migratoria proprio perché era impossibile accontentare tutti i ventisette Stati.
Ma le conclusioni del Consiglio europeo restano, per l’appunto, un orientamento politico, mentre il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea è un testo legale giuridicamente vincolante. Polonia e Ungheria, dunque, non hanno diritto di sottrarsi ai nuovi regolamenti quando verranno adottati, nonostante Orbán abbia annunciato il contrario e Morawiecki abbia promesso un referendum sul tema nel suo Paese.
Battaglia di principio
Quella dei due governi dell’Est sembra allora una battaglia di principio, condotta al più alto livello diplomatico per ribadire due concetti, capisaldi del sovranismo: polacchi e ungheresi vogliono decidere chi può entrare nel loro territorio e non vogliono dover accettare le scelte dell’Ue con cui non sono d’accordo.
Morawiecki e Orbán l’hanno combattuta fino in fondo, trascinando gli altri leader nazionali in una lunga e improduttiva discussione. Nel tardo pomeriggio del 29 giugno, dopo aver discusso e approvato le conclusioni sulla guerra in Ucraina, il dibattito si sposta sul tema migratorio, in particolare sulla dimensione esterna del fenomeno.
I due paragrafi stilati nell’ultima bozza delle conclusioni non sono particolarmente significativi: il primo deplora il naufragio di Pylos e ribadisce la lotta ai trafficanti di esseri umani, il secondo si concentra sulla situazione ai confini esterni dell’Ue e sui meccanismi di gestione dei flussi.
Ma a polacchi e ungheresi il contenuto interessa relativamente: contestano l’adozione del metodo della maggioranza qualificata sull’argomento. E difatti a nulla servono i ripetuti tentativi del presidente Charles Michel di riformulare il linguaggio del testo finale, confidati a Linkiesta da una fonte comunitaria.
I capi di Stato e di governo ne parlano pure durante la cena, ma alle 10 di sera il governo ungherese annuncia «una grande battaglia sulla migrazione» e prefigura una lunga notte di discussione. Il negoziato infatti dura in tutto più di sei ore: dopo l’una di notte i leader mollano la presa e rinviano la questione al giorno successivo.
Che si apre con un trilaterale: Giorgia Meloni incontra da sola Mateusz Morawiecki e Viktor Orbán, in un tentativo estremo di mediazione visto il simile orientamento politico. Nulla da fare: «Io comprendo la loro posizione, che in questo caso è diversa dalla nostra, perché tutti difendiamo i nostri interessi nazionali», dirà poi la presidente del Consiglio italiana al termine dei lavori, in un apprezzabile esercizio di equilibrismo.
Così il vertice si chiude senza un accordo. Il punto delle migrazioni viene stralciato dalle conclusioni finali, che includono guerra in Ucraina, sicurezza e difesa, situazione fra Turchia e Cipro, economia, relazioni con la Cina e con altri Paesi stranieri.
Ci sono invece le «Conclusioni del presidente del Consiglio europeo», che vengono diramate quando su un tema non si è raggiunta una posizione unanime. Michel recupera i due paragrafi eliminati e ne aggiunge un altro in cui annota le richieste di Polonia e Ungheria, cioè «la necessità di trovare un consenso su un’efficace politica di asilo e migrazione» e il fatto che «i ricollocamenti devono avvenire solo su base volontaria».
In questo modo, forse, Morawiecki e Orbán possono rivendicare di fronte alle rispettive opinioni pubbliche una postura fieramente ostinata rispetto all’Europa, ma a conti fatti non otterranno concessioni sul tema.
Lo hanno fatto capire molti leader europei. Dalla stessa Meloni, che ha spiegato come l’accordo di Lussemburgo non esce indebolito né viene rimesso in discussione, al presidente del Consiglio europeo Charles Michel, che ha benedetto la «grande convergenza» di venticinque Paesi su ventisette.
Dal primo ministro svedese Ulf Kristersson, contento da presidente di turno del Consiglio Ue di aver spinto per l’adozione a maggioranza qualificata, fino al cancelliere tedesco Olaf Scholz, che si è detto «non realmente preoccupato» dalle posizioni di Polonia e Ungheria: sodali inseparabili di un ostracismo tanto risoluto quanto inutile.