Esultare per un autogol Le criticità per l’Italia nell’accordo sul Pact on Migration

I soldi che compensano i mancati ricollocamenti non arriveranno direttamente nei Paesi di frontiera, per i quali la responsabilità di esaminare le richieste d’asilo sale a due anni

Migranti soccorsi in mare al largo delle coste spagnole
AP Photo/Joan Mateu Parra

Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi si è detto «molto soddisfatto» dell’accordo raggiunto tra i suoi omologhi l’8 giugno su due regolamenti cruciali del Pact on Migration. Dall’esame dei testi emergono però possibili grosse criticità per l’Italia, in una riforma delle politiche migratorie comunitarie che rischia di accentuare, invece che attenuare, le difficoltà del nostro Paese nella gestione dei flussi.

Come cambia la responsabilità sui richiedenti asilo
L’Asylum and migration Management Regulation, che dovrà sostituire l’attuale regolamento di Dublino, prevede comunque che le persone straniere in arrivo nell’Unione possano presentare domanda di asilo solo nel Paese di primo ingresso, anche se aumentano le fattispecie di eccezione, dai legami famigliari ai titoli di studio ottenuti in un determinato Stato.

Nella posizione concordata al Consiglio dei ministri dell’Interno, la responsabilità del Paese di primo approdo sulle richieste di asilo dei migranti irregolari viene estesa da dodici a ventiquattro mesi, tranne nei casi di persone arrivate a seguito di salvataggio in mare, per cui rimane di un anno.

«Quando viene stabilito che un richiedente asilo ha oltrepassato irregolarmente il confine di uno Stato membro, quello Stato è responsabile per l’esame della richiesta di protezione internazionale», si legge nel regolamento. «Questa responsabilità cessa se la richiesta di asilo viene presentata più di due anni dopo l’attraversamento irregolare».

La Commissione europea, nella proposta originaria, chiedeva di estendere la responsabilità a tre anni; il Parlamento di mantenerla a uno. Sarà cruciale dunque capire quale periodo di tempo verrà definito nel negoziato finale tra le istituzioni comunitarie.

Non un dettaglio, dato che le persone migranti spesso evitano di chiedere asilo nel Paese di primo ingresso e provano a raggiungere, irregolarmente, altri Stati dell’Ue via terra. Sono i cosiddetti «movimenti secondari»: per evitarli i Paesi del Nord e del centro Europa spingono per una durata più estesa della responsabilità del Paese di primo approdo.

Al contrario, agli Stati di frontiera dell’Ue “converrebbe” un periodo più limitato, per ricevere meno «dublinati» (cioè le persone trovate in uno Stato membro diverso da quello in cui hanno fatto ingresso) e ridurre così la pressione sui propri sistemi di accoglienza.

Tanto più che allo stato attuale, le procedure di trasferimento nell’Unione non sembrano funzionare alla perfezione. Il ricercatore di Ispi Matteo Villa stima che almeno settecentomila persone straniere approdate in Italia si siano poi mosse verso altri Stati dell’Ue, ma solo trentacinquemila di loro sono state effettivamente riportate indietro.

«Su questo aspetto i Paesi del Mediterraneo hanno perso, perché saranno i responsabili delle richieste di asilo per un periodo di tempo maggiore rispetto a prima», spiega a Linkiesta Elena Bizzi, esperta di migrazioni di EuroMedRights, un network di organizzazioni che operano nel settore, con sede a Bruxelles.

Anche perché i nuovi regolamenti stringeranno le maglie tramite modalità più accurate di identificazione, con l’introduzione di una procedura ai confini detta pre-entry screening, e un sistema centralizzato di raccolta dati chiamato Ecris-Tcn.

Border procedure: un’arma a doppio taglio
Un altro fattore che potrebbe incrementare la presenza di stranieri irregolari sul territorio italiano è la cosiddetta border procedure, contenuta nell’altro testo legislativo, l’Asylum procedure regulation.

In sostanza si tratta di una trafila più rapida per esaminare le richieste d’asilo, che avviene nei casi di attraversamento irregolare di un confine, approdo irregolare via mare o salvataggio. È obbligatoria in determinati casi: se il soggetto in questione è ritenuto un rischio per la sicurezza nazionale, mentre alle autorità o proviene da un Paese i cui cittadini ricevono meno del venti per cento dei permessi d’asilo rispetto alle richieste presentate.

L’obiettivo di questa procedura express è accelerare le valutazioni per il rilascio della protezione internazionale e quindi sapere in meno tempo chi ha diritto a rimanere in Europa e chi andrebbe espulso. Ma dinieghi più rapidi, se non accompagnati da un’equivalente velocizzazione dei rimpatri, portano inevitabilmente a maggiori presenze di irregolari.

E su questo fronte l’Italia arranca, come e più dell’Ue nel suo complesso. Secondo gli ultimi dati Eurostat disponibili, nel 2022 le autorità italiane hanno emesso 28.185 ordini di rimpatrio, ma solo 2.915 persone sono estate effettivamente allontanate dal territorio nazionale: poco più del dieci per cento contro una media europea del ventitré per cento.

Anche per questo l’accordo sulla riforma della politica migratoria prevede una maggiore libertà nel definire un «Paese terzo sicuro» e quindi la possibilità di inviare persone nei Paesi «di transito», cioè quelli che hanno attraversato durante il loro viaggio, invece che nel Paese d’origine. Ma non è affatto detto che gli Stati in questione, cioè quelli nordafricani e mediorientali, accettino di riprendere sul proprio territorio cittadini stranieri: soprattutto nei casi in cui hanno già fatto intendere di non voler barattare l’accoglienza dei migranti con i soldi europei.

L’Italia rifiuta i soldi
Diverse perplessità suscita pure l’intesa sui ricollocamenti di richiedenti asilo tra i vari Paesi dell’Ue, senza dubbio uno dei punti più innovativi del Pact on Migration. Secondo la posizione adottata dal Consiglio, c’è un numero minimo da raggiungere: trentamila persone all’anno in tutta l’Unione, che saranno trasferite dai Paesi più esposti ai flussi migratori.

Ma se la solidarietà è obbligatoria, i ricollocamenti di per sé non lo saranno: uno Stato che voglia evitarli può pagare una somma compensatoria di ventimila euro a migrante. Soldi che tuttavia non verranno destinati ai Paesi sotto pressione, ma confluiranno in un fondo gestito dalla Commissione europea e dedicato a interventi nei Paesi di origine e transito dei flussi.

In pratica finanzieranno «progetti concreti di realizzazione della dimensione esterna», come ha spiegato lo stesso Piantedosi. All’uscita dalla maratona negoziale in Lussemburgo, il ministro ha insistito molto su questo aspetto, presentandolo come una vittoria per l’Italia: «Non ritenevamo che la dignità del nostro Paese potesse accettare soluzioni di questo tipo», le sue parole in riferimento a possibili pagamenti diretti.

Una posizione all’apparenza contro-intuitiva. «Le procedure di accoglienza e di analisi delle domande d’asilo richiedono denaro. Quei Paesi membri che non beneficiano dei ricollocamenti dal proprio territorio avranno comunque bisogno di chiedere un supporto aggiuntivo per i costi amministrativi da affrontare», dice a Linkiesta Helena Hahn, analista dell’European Policy Centre.

Il governo italiano rivendica l’istituzione di un piano di finanziamenti straordinario, a carico del bilancio Ue, per il rafforzamento delle capacità ricettive e dei sistemi di asilo dei Paesi più esposti alla pressione migratoria, ma nei testi non si trovano cifre specifiche a riguardo.

Il costo per l’accoglienza di un richiedente asilo varia molto in base al luogo dove viene effettuata, spiega l’esperta: solo in Germania, si aggira tra i seimila e i ventimila euro a seconda delle varie regioni. «Ungheria e Italia erano e restano fortemente contrarie a questa forma di solidarietà: per convincerle la cifra è stata abbassata rispetto alle stime iniziali».

Ma per il governo di Budapest la logica è chiara: non intende ricollocare migranti sul suo territorio e non vorrebbe nemmeno pagare le somme di compensazione, infatti è l’unico Paese insieme alla Polonia ad aver votato contro l’accordo. L’Italia invece sarebbe stata tra i Paesi beneficiari dei finanziamenti altrui, visto che risulta tra quelli più esposti agli ingressi irregolari.

Piantedosi però ha insistito con i suoi colleghi per impiegare queste risorse finanziarie nella cosiddetta «dimensione esterna», finanziando piuttosto gli accordi con i Paesi terzi, in ossequio alla strategia del suo governo, che alla redistribuzione dei migranti nell’Unione preferirebbe frontiere impermeabili.

Il ministro ha affermato che da tali iniziative «si iniziano a intravedere segni concreti». Sarà il tempo a dargli ragione, o torto.

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