I firmacopie per William T. Vollmann sono una cosa dannatamente seria. Lo capisci quando al banchetto prende in mano una copia de “L’atlante”, il suo ultimo libro pubblicato in Italia da Minimum Fax, e ti accorgi che non ha bisogno di guardare mentre scrive una dedica parecchio complessa (firma, intestazione e disegnino erotico). Ha imparato a scrivere in questo modo durante i suoi vagabondaggi spericolati in giro per il mondo, «così puoi farlo anche se sei al buio, o nella giungla, o se ti stanno sparando addosso». Questa è la prima ragione per cui non guarda. La seconda è che ha una curiosità patologica. Mentre ci dà dentro sul frontespizio, fissa con bonario interesse la persona che ha di fronte e le chiede qualunque cosa, da come è stata la sua giornata alla sua marca preferita di grappa. Alexander Simon, il suo agente tedesco, mi dice che in Germania lo chiamano “Mr. How about you”, perché è quasi impossibile rivolgere a Bill una domanda senza che te la restituisca chiedendoti cosa ne pensi tu.
Ho toccato con mano la puntualità del soprannome il giorno dopo il firmacopie, quando l’ho avvicinato per un’intervista sul treno che ci portava da Bologna a Rovereto, terza tappa del suo tour italiano. Sopra la t-shirt nera indossava un gilet da pesca minimale: due cinghie color verde militare alle cui estremità pendevano altrettante tasche con cerniera. Una via di mezzo tra delle fondine ascellari e un giubbotto antiproiettile ridotto all’osso. Aveva un’aria molto concentrata mentre batteva i tasti del suo laptop appoggiato sulle ginocchia. Per ogni mia domanda, me ne ha rivolte almeno due. Da qualche parte, nel mio registratore, c’è un’intervista di William T. Vollmann al sottoscritto che aspetta solo di essere sbobinata. Nel frattempo, questa è la mia a lui.
Cosa stavi scrivendo?
Quando vado in giro, se vedo qualcosa di unico o semplicemente diverso dal solito, prendo degli appunti. Sai, una storia non è nient’altro che una collana. Raccolgo sempre qualche perlina, anche se non so se e quando la infilerò nel filo di una storia.
Hai sempre fatto così?
Beh, ho iniziato a scrivere a cinque o sei anni, il metodo ormai è rodato.
Che tipo di bambino eri allora?
In realtà all’inizio volevo essere come gli altri, avere degli amici e tutto il resto, ma non potevo per via di questo problema agli occhi che mi fa vedere in due dimensioni, mi manca la profondità. Al tempo nessuno lo sapeva, nemmeno io. Mio padre pensava che fossi solo molto pigro, o imbranato. Alle elementari venivo scelto sempre per ultimo nei giochi. Una volta in classe vinsi una gara facendo lo spelling di “bacteria”, così gli altri bambini me la fecero pagare, intendo fisicamente. Mi dissi: «Ok, con loro non funziona. Non posso essere come gli altri, posso solo essere me stesso». A tutt’oggi ci sono molte cose che non posso fare, per esempio non posso guidare o tagliare l’erba del prato come si deve.
Anche viaggiare è una parte fondamentale della tua scrittura. Viaggi per scrivere o scrivi per viaggiare?
Qualche volta viaggio per scrivere, qualche volta viaggio per viaggiare. Ma quando viaggio, viaggio. Non capisco le persone che lo fanno col cellulare. Sento gente che dice continuamente ad altra gente quello che sta facendo, e mi chiedo: dove sei veramente, qua o là? Per me il cellulare sarebbe una sorta di guinzaglio, mi rifiuterò sempre di averne uno.
Come ti prepari prima di partire per un reportage? Studi? Butti giù le domande?
No, perché non puoi pretendere di sapere quale sarà la storia prima di essere andato a conoscerla, sennò rischi di ottenere esattamente la storia che volevi, come una profezia che si autoavvera, ovvero una storia falsa. La prima volta che sono andato a Fukushima, due settimane dopo il disastro, sapevo che volevo visitare la zona nucleare, ma a parte questo mi sono limitato a chiedere alle persone cose come: «Come ti senti?» «Cos’è successo?» «Hai idea di cosa sia una radiazione?» Molti non lo sapevano. Era tutta brava gente, che credeva nel governo e nell’industria nucleare, e la tv giapponese ripeteva che non c’era pericolo immediato. Per me era assurdo, come se qualcuno ti spara e finché la pallottola non raggiunge la tua faccia continui a dire che non c’è pericolo immediato. Ma se fossi andato là pensando che loro sapessero tutto sulle radiazioni e che fossero molto arrabbiati col governo, allora le mie domande sarebbero state tipo: «Quanto sei arrabbiato col governo?». Così loro avrebbero pensato: «Oh, è questo che Bill vuole sentirsi dire», e tutto sarebbe venuto fuori in maniera distorta.
Ti sei mai fatto dei nemici a causa di quello che hai scritto?
Può darsi. Ma la buona notizia è che non uso internet, non lo scoprirò mai. (ride)
Quando è scoppiata la pandemia, una delle prime cose che ho pensato è stata: «Chissà dove sarà William T. Vollmann, cosa starà facendo, se ne scriverà».
Dal momento che stiamo distruggendo il pianeta, forse la cosa migliore sarebbe stata se la popolazione si fosse ridotta del settanta o ottanta per cento a causa della pandemia. Ma se potessi premere il bottone per uccidere tutta questa gente senza dolore, non credo che avrei il cuore di farlo. La cosa peggiore della pandemia, oltre al fatto che adesso c’è tutta una nuova generazione che ha più paura di avere contatti con altra gente, è che ha alimentato la plutocrazia: media e società varie possono sorvegliarci sempre di più attraverso internet per venderci prodotti o vendere i nostri dati ai governi. Beh, se potessi premerei senza esitazione il bottone per distruggere internet, questo sì. Penso che sia una delle cose più pericolose e odiose mai inventate.
Non ti è venuta voglia di scrivere qualcosa sulla pandemia?
Non ho molto da dire al riguardo. Non so quanto tempo mi rimane da vivere, preferisco occuparmi di altro.
E sulla guerra in Ucraina?
Ci ho pensato. Se volessi avere un’opinione davvero informata, dovrei andare là, ma sul fronte russo. Perché è un punto di vista che di solito non ci importa, lo diamo per scontato. È importante mantenere la mente aperta. Anche se l’invasione dell’Ucraina fosse sbagliata, e non è detto che lo sia, vorrei capire cosa ne pensano i russi. Tutti hanno un punto di vista. Non vuol dire che entrambe le parti siano nel giusto allo stesso modo; ma che qualche volta, se capiamo di più, forse possiamo intravedere la soluzione.
Nella tua vita, oltre ad andare a Fukushima subito dopo il disastro nucleare, hai fatto una quantità impressionante di esperienze che molti considererebbero pericolose: sei andato a caccia di trichechi con gli Inuit a nord del Canada; hai rapito e liberato una prostituta bambina thailandese; sei sopravvissuto a un attentato in cui morirono due tuoi amici giornalisti in Bosnia; hai fumato crack con le prostitute di San Francisco. E non siamo nemmeno a metà de L’atlante, che è solo uno dei tuoi innumerevoli libri. Com’è che sei ancora vivo?
Vedi, non ho un desiderio di morte. Faccio cose pericolose, ma in maniera molto coscienziosa. Quando i miei due amici giornalisti furono uccisi in Bosnia, vedemmo il cartello che diceva che stavamo entrando nella zona di guerra. Mi misi subito il giubbotto antiproiettile e loro scoppiarono a ridere: «Dai Bill, non essere codardo». Faceva caldo, dissero: «È solo un cartello». Uno fu colpito alla testa, quindi sarebbe stato comunque inutile, ma l’altro fu colpito in petto, come me. Si sarebbe salvato.
In effetti ora che ci penso sei uno dei pochi scrittori che amo e che non ha fatto una brutta fine. Parlo di suicidio o droghe.
C’è questa storiella buddista in cui un uomo inizia a cadere da un dirupo, e in fondo al burrone c’è una tigre pronta a mangiarlo. Cade e cade, finché a metà riesce ad aggrapparsi a una pianta, e rimane lì sospeso nel vuoto. Solo che la pianta inizia lentamente a strapparsi, così sa che sta per cadere giù ed essere mangiato dalla tigre. Ma a un certo punto vede che sopra la pianta c’è un fiore, e pensa: «Oh, ma che bel fiore!». Credo ci sia molta saggezza in questa storiella, perché in fondo è la nostra situazione da quando nasciamo. Ovviamente vorremmo tornare in cima al dirupo, o almeno rimanere lì sospesi a metà a guardare il fiore, ma non possiamo. Non abbiamo il controllo sulla morte, a meno che non ci suicidiamo.
Hai mai considerato il suicidio in passato?
Certo, come tutti. Ho un amico che dice spesso: «Il pensiero del suicidio mi ha confortato in parecchie notti invernali, specie in quelle più cupe».
C’è qualcosa che vorresti fare prima di morire?
Vorrei finire molte cose che sto facendo, le cose che sono bravo a fare. Non so quanti libri riuscirò ancora a scrivere, né quanto tempo ho ancora. Cerco di godermi la vita ed essere la persona migliore che posso e aiutare gli altri con la mia scrittura – quando ci riesco.
Se potessi fare un viaggio nel tempo, con quale scrittore morto ti faresti una birra.
Saffo.
Perché?
Perché a entrambi piacciono le donne. (ride)
Con chi invece non usciresti mai?
Incontrerei chiunque. Perché non dovrei parlare con una persona che disprezzo? Magari capirei il suo punto di vista, qualcosa finirebbe perfino col piacermi. Avevo una donna delle pulizie Testimone di Geova che era molto preoccupata per la mia anima, credeva che sarei finito all’inferno. Le rispondevo sempre: «Beh, sai, non mi dispiacerebbe intervistare Satana».