Nella sua vita Ales Pushkin è stato molte cose: pittore, performer, uno dei più importanti artisti teatrali bielorussi degli ultimi trent’anni, curatore di mostre d’arte, dissidente. Sempre dalla parte della democrazia, le sue posizioni politiche lo avevano portato spesso a finire nel mirino del regime di Alyaksandr Lukashenka, contro cui si è sempre battuto con garbo e intelligenza. Nel 2011, dopo essere stato detenuto per tredici giorni per «teppismo doloso», aveva dichiarato, «mi hanno trattato con grande rispetto in prigione. Mi sono rifiutato di muovermi, quindi mi ci hanno portato loro a braccia!»
Ales Pushkin è morto in circostanze non chiare l’11 luglio di quest’anno nella prigione numero 1 di Grodno, città nord occidentale della Bielorussia, al confine con la Polonia. Non sono mai state fornite spiegazioni ufficiali su quello che è successo. Stava scontando una pena detentiva di cinque anni per dissacrazione dei simboli dello stato e incitamento all’odio. Nel 2014 aveva esposto in una mostra un ritratto di Yevgeny Shikhar, leader della resistenza bielorussa contro l’Unione Sovietica durante la seconda guerra mondiale. Per questo motivo era stato accusato di propagare idee neonaziste. L’incriminazione era stata presentata solo un paio di anni fa. All’epoca il quadro fosse stato presentato senza problemi in Bielorussia e in Russia.
Ales Pushkin era un prigioniero politico, sebbene Lukashenka continui a negare che esista questa categoria di detenuti in Bielorussia. L’associazione in difesa dei diritti umani Viasna ha identificato circa millecinquecento persone attualmente incarcerate per le loro azioni o le loro idee politiche.
Il pugno duro sull’opposizione
Lukashenka, presidente della Bielorussia dal 1994, ha da sempre utilizzato il pugno di ferro per mantenere il potere, ricorrendo a intimidazioni, pestaggi e calunnie per danneggiare gli avversari. Il giro di vite è avvenuto in prossimità delle elezioni presidenziali del 9 agosto 2020, quando l’attivista e blogger Sergei Tikhanovsky, candidato presidente per l’opposizione, è stato incarcerato con l’accusa di aver utilizzato il suo blog per rovesciare in modo violento il regime. Sorte analoga è capitata all’altro candidato forte dell’opposizione, il banchiere Viktor Babaryko, arrestato due mesi prima delle elezioni per un presunto reato di evasione fiscale. Un terzo sfidante, Valery Tsepkalo era stato fatto fuori invalidando le firme di sostegno alla sua candidatura. Anche su di lui è stata costruita una fantasiosa incriminazione, costringendolo a riparare all’estero.
L’opposizione aveva fatto allora quadrato intorno alle figure di Svetlana Tikhanovskaya e Veronika Tsekpalo, consorti rispettivamente di Sergei Tikhanovsky e Valery Tsepkalo, e di Maria Kalesnikava, coordinatrice della campagna elettorale di Babaryko. L’immagine delle tre donne unite, nel giorno in cui annunciarono la candidatura di Tikhanovskaya come sfidante principale di Lukashenko, fece il giro del mondo. In quei giorni c’era la percezione che il dittatore avesse cominciato a mostrare delle crepe e potesse essere sconfitto. Questo sentimento era peraltro confortato da diversi sondaggi non ufficiali.
Il giorno delle elezioni arrivò l’amara sorpresa. I risultati ufficiali decretarono l’ennesima vittoria di Lukashenka, con un astronomico ottantuno per cento, contro il dieci per cento della sfidante. La maggior parte degli analisti concorda sul fatto che quella tornata elettorale fu pesantemente truccata e che il suo esito non corrisponde in alcun modo ai dati usciti dagli scrutini. Secondo quanto riferito dai rappresentanti di seggio, Tikhanovskaya era nettamente avanti nella maggior parte dei distretti di Minsk. Molti Paesi, tra cui l’Unione europea, non hanno riconosciuto l’esito di quelle elezioni.
L’annuncio dei risultati fu la miccia che incendiò le proteste. La repressione fu brutale, con migliaia di arresti e deportazioni. Per mesi, ogni settimana, i manifestanti sono scesi per strada per manifestare pacificamente, e per mesi le persone sono state sistematicamente arrestate e portate via.
La maggior parte dei rappresentanti politici dell’opposizione è stata costretta a fuggire all’estero, insieme a migliaia di altri connazionali, si stima quasi centomila. Tra di loro anche Tikhanovskaya, intorno alla quale si è costruita la resistenza democratica al regime di Lukashenka. Anche Veronika Tsekpalo è riuscita a scappare. Maria Kalesnikava invece no. Dopo essere stata arrestata per essere deportata, ha strappato il proprio passaporto per non essere costretta a lasciare il Paese. È stata condannata a undici anni di carcere. Attualmente si trova in condizioni di isolamento assoluto. L’ultimo contatto con lei, la sorella l’ha avuto il 2 febbraio di quest’anno, e questa sembra essere una sorte comune a tanti dei prigionieri politici di Lukashenka. Lo stesso sta accadendo a Tikhanovsky e Babaryko, e anche al giornalista polacco Andrzej Poczobut, condannato a otto anni di colonia penale per «sobillazione contro lo stato bielorusso».
La strategia sembra essere chiara: tagliare i ponti dei prigionieri con i loro familiari, per fiaccare qualsiasi tentativo di resistenza e annichilire la loro speranza di uscire e cambiare le sorti della Bielorussia. Questo, finché le cose non finiscono male, com’è stato nel caso di Pushkin, appunto.
Il governo in esilio
Quello che si è costituito all’estero è un vero e proprio governo in esilio, istituito formalmente nell’agosto dell’anno scorso sotto la guida di Svetlana Tikhanovskaya. Sono state aperte venti ambasciate parallele e centri di informazione in diversi Paesi. In una conferenza tenutasi a Varsavia qualche settimana fa, Tikhanovskaya ha esortato le forze d’opposizione in esilio a restare unite e a mostrare unità strategica. Uno degli ambiziosi obiettivi del governo ombra è quello di riuscire a emettere dei passaporti alternativi sotto il nome di «Nuova Bielorussia».
È opinione condivisa che fronte dell’opposizione oggi sia meno unito rispetto a tre anni fa. Nei primi mesi delle proteste il supporto alla causa bielorussa aveva ottenuto grande risonanza mediatica anche all’estero, e questo aveva fatto da collante. Tuttavia con il tempo l’interesse è andato via via svanendo, fatta eccezione per alcuni Paesim come Polonia e Lituania, mentre di pari passo Lukashenka non hai mai mollato la presa.
Come riconosce la stessa Tikhanovskaya, «gli ultimi tre anni ci hanno insegnato a prepararci sempre al peggio. Siamo abituati al fatto che non basta il desiderio più forte per cambiare un sistema marcio». L’invasione russa dell’Ucraina ha rappresentato in un certo senso uno spartiacque. Da una parte ha accelerato il processo di unificazione tra Bielorussia e Federazione Russa, non ancora formale dal punto di vista politico – per quello ci vorrà ancora qualche anno –, ma praticamente completato dal punto di vista militare. I soldati di Mosca si sono installati in maniera permanente in territorio bielorusso, che utilizzano come rampa di lancio per gli attacchi all’Ucraina. A rendere ancora più inestricabile il vincolo tra i due Paesi, da quest’estate Putin ha fatto dispiegare sul territorio bielorusso delle armi nucleari tattiche a corto raggio.
A complicare le cose ci si è messa anche la Wagner. Nelle prime ore del 24 giugno, quando sembrava che Yevgeny Prigozhin fosse intenzionato a portare a termine quello che sembrava essere un colpo di stato, Tikhanovskaya aveva dichiarato che si stava istituendo un quartier generale operativo unito» per «coordinare le nostre attività in questo momento critico». Un eventuale rovesciamento di Putin avrebbe trascinato con sé anche Lukashenka. L’evolversi della situazione ha però visto proprio «Batka» (in bielorusso «padre», appellativo del dittatore) ergersi come mediatore del confronto tra Putin e Prighozin, con il dispiegamento di uomini e mezzi Wagner proprio in Bielorussia. Una situazione che restringe ancora di più il campo di azione dell’opposizione.
Di lotta e di governo
L’inizio del conflitto ha tuttavia visto nascere e moltiplicarsi diverse forme di lotta contro il regime. Nonostante la Bielorussia non abbia impiegato direttamente il proprio esercito, il Paese rimane uno snodo cruciale dal punto di vista logistico per il trasporto di uomini e materiali al fronte. Per questo motivo i movimenti partigiani hanno preso di mira i treni e le infrastrutture ferroviarie con una serie di operazioni di sabotaggio particolarmente efficaci, come incendi alle cabine di trasmissione e alla segnaletica. Solo nel primo mese e mezzo di guerra erano state condotte ottanta azioni di questo tipo, che hanno messo in grossa difficoltà l’intera rete. Per scoraggiare queste iniziative il parlamento bielorusso ha approvato una legge che prevede la pena di morte.
Molti bielorussi hanno inoltre deciso di imbracciare le armi e andare a combattere a fianco degli ucraini, inizialmente unendosi alle divisioni dell’esercito di Kyjiv, in seguito organizzandosi loro stessi nel battaglione dei Corpi Volontari Bielorussi.
Quello della lotta armata risulta essere al momento il maggior punto di divisione e di scontro all’interno dell’opposizione in esilio. Al governo di Svetlana Tikhanovskaya viene riconosciuto di avere dato una struttura civile alla resistenza all’estero, ma per un certo numero di dissidenti questo non basta più.
Reuters riporta che a inizio agosto, durante una conferenza tenutasi in Polonia, il veterano Pavel Kuhta ha tenuto un discorso molto apprezzato dal pubblico, in cui ha denunciato che il governo in esilio non sta facendo abbastanza per sostenere la resistenza armata.
Sulla stessa linea è Sergey Kedyshko, che addestra al combattimento un gruppo di circa duecento volontari bielorussi in Polonia e Lituania, secondo il quale quando si svolge un qualche tipo di azione militare e bisogna agire in modo molto rapido ed efficace, l’opposizione bielorussa è sempre in ritardo.
Mentre è appena passato il terzo anniversario dall’inizio delle proteste, e migliaia di persone hanno partecipato alle celebrazioni, la sfida per l’opposizione sembra essere quella di dare continuità all’importante lavoro diplomatico fatto finora, ma anche di avere un ruolo più attivo in quello che succede all’interno del Paese. L’obiettivo d’altra parte è sempre lo stesso: dare un futuro democratico alla Bielorussia e fare in modo che cessi di essere il giardino privato di Lukashenka.