«Per me Elly Schlein è populismo, quello di scaturigine nordamericana che sta facendo danni nel partito democratico americano al punto da resuscitare il trumpismo. E per di più la strategia di crasi tra Partito democratico e Cinquestelle è quella dalemiana. Tutto già scritto. Tranne se esisterà un coraggio per chi non riesce a darselo, ovvero i riformisti del Pd. Noi cercheremo di creare le condizioni per fare un’altra cosa». Enrico Borghi, capogruppo di Italia viva al Senato, commenta quanto scritto da Linkiesta sulla sostanziale identificazione tra Schlein e Conte che negli ultimi tempi è un po’ il fatto nuovo del quadro politico.
Per uno che fino a pochi mesi fa era un esponente di punta dei riformisti del Pd, questa novità è una deriva rispetto al partito che aveva in mente Walter Veltroni. Ma è anche vero che rimettere indietro gli orologi non è possibile. La crasi tra dem e grillini, o post-grillini, dovrebbe in teoria aprire spazi al centro, questa terra incognita che in tanti hanno provato a coltivare nell’era sgangherata di un bipolarismo più di potere che di ideali prima o poi tutti fallendo, eppure resta questa l’idea di fondo dei riformisti-centristi: ma come declinarla concretamente? Questo è il problema.
Che poi va detto che questo centro si può fare in vari modi. Si può puntare a costruire uno spazio politico se non numericamente almeno politicamente egemone, in grado di guidare le estreme, un centro politicamente forte, di governo, affidabile, europeo: parve per un breve tratto che Mario Draghi potesse se non guidarlo direttamente almeno ispirarlo ma non ci fu nulla da fare.
E c’è in giro anche l’idea intellettualmente più piccina di un centro numericamente limitato ma determinante per formare una maggioranza, sia di centrodestra che soprattutto di centrosinistra: il che non appare una prospettiva altrettanto esaltante ma è pur sempre possibile.
Matteo Renzi sembra essere passato dalla prima via – un centro politicamente egemone – alla seconda – un centro indispensabile per chi voglia governare: almeno questo sembra potersi ricavare dalle indicazioni di diversi mesi fa quando parlava di un partito a due cifre, addirittura primo alle elezioni Europee, e da quelle più recenti e modeste (superare il quattro per cento), come se quelle di un tempo si fossero rivelate, direbbe Moravia, “ambizioni sbagliate”.
Ora, rivela il Corriere della Sera, il leader di Italia viva punterebbe a fare nascere un gruppo parlamentare denominato appunto “Centro” forse come primo passo di una “Cosa” nuova con pezzi di Forza Italia (o, un domani, tutto il partito divenuto con Antonio Tajani “Forse Italia”) e qualche transfuga dal Pd. Che è quello che in sostanza dice Borghi, un riformista democratico che però non è stato seguito da nessuno all’atto del suo ingresso in Italia viva, e sinceramente non si scorgono grandi movimenti all’interno del partito di Schlein dopo che Stefano Bonaccini ha stretto con lei un patto solido.
La strada di Renzi insomma non è ancora definita (infatti c’è il congresso il 15 ottobre) ma rischia di non portare da nessuna parte fintantoché il bipolarismo, non dando segni di cedimento, renderà inevitabile schierarsi di qua o di là: con tutta l’autonomia possibile, certo, allo scopo di condizionare in senso riformista un centrosinistra (che altra collocazione non è credibile: perché Giorgia Meloni si dovrebbe mettere un Renzi in casa?) sempre più radicalizzato.
Con la questione del salario minimo, da parte sua Carlo Calenda si è trovato dentro il campo largo un po’ per scelta di merito (e dunque circoscritta) e un po’ per una certa forza delle cose. Non è affatto detto che ci si trovi bene. E infatti presto potrebbe presentarsi l’occasione per rompere (ci va Azione alla manifestazione della Cgil del 7 ottobre?) magari proprio sul prosieguo della battaglia sul salario minimo.
Ecco perché dopo il crollo del castello di carte del Terzo Polo, che resta agli atti come una delle più incredibili iatture politiche, le due strade di Matteo Renzi e di Carlo Calenda appaiono entrambe parecchio scoscese.