Fuori stagioneL’estate in cui Matteo Salvini ha fallito su tutta la linea (e non è il 2019)

Il populismo su migranti e porti chiusi si è frantumato all’impatto con la realtà. Come ministro delle Infrastrutture, il leader della Lega non ha ottenuto risultati migliori, nella maggioranza di governo è sempre due passi indietro rispetto alla premier ed è anche sempre più isolato nella politica europea

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La stagione dell’estate non si addice a Matteo Salvini. Chissà perché. Questa non è catastrofica come quella del Papeete (2019) quando, ebbro di sondaggi, forzò la mano – i famosi «pieni poteri» – e mal gliene incolse. Ma le cose anche in questa stagione hanno preso per lui una pessima piega.

Come ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti non funziona, dicono che nemmeno ci va tanto, al ministero, non ha combinato nulla ma proprio nulla se non le scenette sul Ponte di Messina, che già fa ridere così. La cosa davvero enorme è la sua (non solo sua a dire il vero) incapacità, cioè la disonestà intellettuale, di fare autocritica, di dire semplicemente: ho sbagliato.

L’uomo che teneva la gente disperata in mezzo al mare impedendo di sbarcare, che urlava «prima gli italiani», che evocava l’assalto degli stranieri all’Italia, che ha usato il Viminale come macchina da guerra contro gli immigrati, oggi è vicepremier in un governo sotto il quale gli sbarchi sono raddoppiati nei primi sette mesi del 2023 rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso: è stata superata quota centomila migranti sbarcati sulle coste italiane dall’inizio dell’anno. Dal primo gennaio 2023 al 16 agosto, sono esattamente 101.386 le persone arrivate seguendo le rotte del mare: il 107,1 per cento in più rispetto ai 48.940 del periodo corrispondente dell’anno scorso. Sono dati ufficiali. Da cui si desume agevolmente che i partiti di destra, quelli del blocco navale, hanno fallito sulla sua linea esposta al punto sei del programma elettorale di governo sottoscritto dai partiti della coalizione.

Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega promettevano che in caso di vittoria avrebbero ripristinato i decreti sicurezza di Salvini, messo in piedi un serio piano di «contrasto all’immigrazione irregolare» mediante una «gestione ordinata dei flussi legali di immigrazione». Grazie a tutto questo ci sarebbe stata la salviniana «difesa dei confini nazionali ed europei» oltre a maggiori controlli alle frontiere e al «blocco degli sbarchi per fermare la tratta di esseri umani».

Non c’è stato nulla di tutto questo. Per la buona ragione che questi “interventi” erano fuffa – in questo Giorgia Meloni e Salvini hanno fatto a gara, al terzo posto c’è un ministro incolore come Matteo Piantedosi – e che i tentativi di imbastire una “politica africana” con il fantomatico Piano Mattei si sono risolti in un bel po’ di soldi e di legittimazione al dittatore tunisino Kaïs Saïed, cosa che peraltro non ha minimamente fermato la fuga dei tunisini verso la Sicilia.

Ma il punto più grave per chi governa, e in particolare di Salvini, è non aver compreso che il sentiment degli italiani è cambiato abbastanza nettamente. E non solo perché gli imprenditori del Nord hanno bisogno di manodopera e dunque degli immigrati e sono stufi dei vecchi toni xenofobi della Lega (infatti guardano tutti a Meloni), ma anche perché qualcosa di importante è cambiato nel profondo della società. È molto interessante a questo proposito vedere i dati riportati su Formiche.net dal sociologo Enzo Risso, direttore scientifico di Ipsos.

Certo, il Paese appare tuttora spaccato in due «con il quarantuno per cento degli italiani schierati su sentimenti primatisti e orientati a ritenere che gli immigrati sottraggano servizi sociali e risorse importanti agli italiani; il cinquantuno per cento, invece, ritiene gli immigrati una risorsa per il Paese» ma è un «quadro evolutivo» rispetto a tre anni fa (quindi Salvini era in auge): «Le persone che tre anni fa auspicavano uno stop agli arrivi di migranti nel nostro Paese erano il sessanta per cento della popolazione maggiorenne. Gli aperturisti accoglienti erano, invece, una sparuta minoranza (diciannove per cento). La restante quota del ventuno per cento era incerta e ondivaga sul da farsi. A fine maggio 2023, quasi tre anni dopo, il numero delle persone favorevoli alla chiusura totale sono scese al quarantuno per cento. Un calo secco di diciannove punti percentuali, anche se restano sempre la maggioranza relativa dell’opinione pubblica. Gli aperturisti, quanti pensano che si debba consentire l’arrivo di migranti e la possibilità di accoglierne almeno una parte, sono aumentati di quattordici punti, passando al trentatré per cento».

Sta avvenendo, insomma, quanto gli studiosi dei fenomeni sociali dicono da tempo, e cioè che il processo di inclusione e assimilazione di una quota di immigrati è inarrestabile e va perciò governato e non demonizzato: esattamente qui sta il fallimento intellettuale prima ancora che politico del leader della Lega.

Anche questo, soprattutto questo, spiega la sua crescente marginalità sulla scena politica dominata a destra da Giorgia Meloni e i suoi seguaci. Una Meloni che egli insegue con scarso successo e con la quale cerca di attaccare briga appena può, come si è visto sulle alleanze europee a causa della sua ostinazione, che sembra andare in direzione opposta agli orientamenti degli italiani, per un’intesa con la destra estrema di Marine Le Pen, un’ipotesi che ha isolato la Lega nel centrodestra.

Ricapitolando: totale improduttività nella funzione di ministro, perdita della scommessa politico-culturale sull’immigrazione, isolamento sulla politica europea: non è il Papeete ma somiglia lo stesso a un fallimento.

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