Giovedì 24 agosto, quando l’Italia si stiracchiava sotto le prime luci dell’alba, nel nord del Giappone è cominciata un’operazione polarizzante, delicata ma (teoricamente) necessaria per reagire a uno dei disastri nucleari peggiori della storia umana.
Ci riferiamo allo sversamento nell’oceano Pacifico delle acque radioattive dell’ex centrale nucleare di Fukushima Daiichi, distrutta nel 2011 da un terremoto di magnitudo 9 e dal conseguente maremoto del Tōhoku. Il via libera più importante è giunto il 4 luglio da parte dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), l’organo ufficiale dell’Organizzazione delle Nazioni unite in materia di energia nucleare, che ha giudicato il piano di rilascio dell’acqua – durerà tra i trenta e i quarant’anni – sicuro ed efficace. Questa settimana è poi arrivata la conferma del premier Fumio Kishida, già criticato per un preoccupante cambio di passo sui temi ambientali ed energetici.
Ieri, le condizioni meteorologiche favorevoli hanno permesso alla Tokyo electric power company (Tepco), l’azienda energetica che gestisce l’ex centrale nucleare, di partire con la prima fase del processo: nel giro di circa diciassette giorni verranno scaricati in mare circa settemilaottocento metri cubi d’acqua di raffreddamento, una quantità equivalente a tre piscine olimpioniche. In totale verrà smaltito più di un milione di tonnellate (1,3) di acqua contenente elementi radioattivi, attualmente conservata in più di mille serbatoi d’acciaio.
Una dispersione che, secondo Tokyo, è necessaria non solo per motivi di spazio, ma anche per garantire il completo smantellamento dell’ex centrale e minimizzare il rischio di futuri disastri ambientali. Ciononostante, l’avvio delle operazioni ha scatenato diverse preoccupazioni per ragioni ambientali e per gli effetti sul mercato ittico nazionale. La pesca, in termini sia qualitativi sia quantitativi, rimane uno dei settori più redditizi dell’economia giapponese. Al momento, l’esecutivo ha tamponato con circa trenta miliardi di yen (duecentosei milioni di dollari) per risarcire i pescatori e cinquanta miliardi di yen (trecentoquarantadue milioni di dollari) per alleggerire le conseguenze finanziarie sul loro lavoro.
Secondo i risultati di un sondaggio telefonico, condotto dal quotidiano Asahi Shimbun, il settantacinque per cento dei giapponesi ritiene che il governo Kishida abbia sottovalutato i danni dello sversamento delle acque di Fukushima sui prodotti ittici locali. Nella regione di Tohoku, dove si trova la vecchia centrale, quasi il novanta per cento degli intervistati ha definito «insufficienti» gli sforzi dell’esecutivo. In generale, il quarantuno per cento dei partecipanti al sondaggio ha ammesso di non essere d’accordo con il piano dell’esecutivo.
Sul tavolo ci sono anche i rapporti diplomatici tra Giappone e Cina, a dir poco tesi dopo che Pechino ha annunciato lo stop totale all’importazione di pesci e crostacei provenienti dalle acque giapponesi. Dopo il disastro di Fukushima, ricordiamo, Pechino aveva vietato l’import di prodotti agricoli e alimentari di cinque prefetture giapponesi, ampliandolo poi a dieci delle quarantasette divisioni territoriali del Paese.
La decisione della Cina ha enfatizzato le preoccupazioni delle comunità di pescatori giapponesi: indipendentemente dall’assenza di rischi sulla salute, la dispersione nel Pacifico di acqua radioattiva rischia di estromettere dal mercato tutta la zona di Fukushima. Insomma, chi è disposto a comprare e mangiare del pesce che nuota all’interno di quelle acque? È questa la domanda che si pongono gli operatori del settore ittico.
Giovedì il governo cinese ha definito «egoista e irresponsabile» la decisione del Giappone, accusato di ignorare una serie di «interessi pubblici internazionali». Tokyo, di tutta risposta, ha accusato la Cina di diffondere «informazioni scientificamente infondate». Le tensioni sono arrivate anche a Seul, dove – scrive Reuters – la polizia ha arrestato quattordici persone entrate in un edificio dell’ambasciata giapponese per protestare contro lo sversamento delle acque radioattive dell’ex centrale nucleare di Fukushima. Tuttavia, il governo della Corea del Sud non ritiene problematico il piano giapponese.
La posizione della Cina, primo emettitore globale e grande utilizzatore dell’energia nucleare (ha cinquantacinque reattori al momento attivi), è chiaramente pretestuosa e mossa da interessi politici. «Dal mese scorso la Cina testa la radioattività dell’import ittico proveniente dal Giappone e ora le restrizioni dovrebbero essere accentuate, con Hong Kong e Macao (regioni speciali sotto amministrazione cinese) che si apprestano a vietare l’import di alimenti considerati a rischio da alcune zone del Giappone», spiega Guido Alberto Casanova di Ispi Asia Centre.
La questione, al di là delle proteste cinesi, continua comprensibilmente a non convincere tutti, in particolare i pescatori e le organizzazioni ambientaliste. Il dubbio principale si chiama trizio (o idrogeno-3), il terzo isotopo (radioattivo) dell’idrogeno dopo il prozio e il deuterio, presente naturalmente nell’atmosfera ma anche nel mare. Questo elemento si può trovare in natura anche grazie alle precipitazioni, in quanto viene continuamente prodotto nell’alta atmosfera grazie all’interazione dei raggi cosmici con l’azoto atmosferico.
Prima di essere rilasciata nell’oceano, l’acqua usata per raffreddare l’ex centrale nucleare è stata filtrata con delle tecnologie – gli Advanced liquid processing system, Alps – deputate a eliminare quasi ogni sostanza potenzialmente dannosa per la salute (umana e animale) e per l’ecosistema. Quel quasi si riferisce proprio al trizio, che non può penetrare nell’organismo umano attraverso la pelle ma è pericoloso se ingerito in enormi quantità. Secondo i critici, non esistono ancora abbastanza dati a lungo termine e studi per scongiurare una minaccia per la salute umana e per l’ambiente marino.
Prima dell’avvio delle operazioni di sversamento, Tepco ha annunciato che il primo lotto di acqua rilasciata in mare conterrebbe “solo” centonovanta becquerel (l’unità di misura dell’attività delle sostanze radioattive) di trizio per litro: una cifra nettamente inferiore al limite di diecimila becquerel per litro di acqua potabile imposto dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms).
Giovedì mattina è arrivato anche un comunicato dall’Aiea, che questa settimana avrebbe raccolto ed esaminato dei campioni dell’acqua del primo lotto di scarico: «L’analisi condotta indipendentemente sul posto ha confermato» che la concentrazione del trizio radioattivo era «ben al di sotto del limite operativo di millecinquecento becquerel per litro».
Vanno poi considerati altri due fattori. Il primo è che i liquidi verranno sversati a una velocità massima di cinquecentomila litri al giorno. Il secondo è che l’acqua della centrale, prima di essere pompata nel Pacifico attraverso un tunnel sottomarino, verrà diluita con acqua di mare. Proprio per questo, spiega l’Aiea, gli effetti sarebbero «trascurabili» sia sulle persone, sia sull’ambiente.
Le tesi ufficiali non convincono però la costola giapponese di Greenpeace. L’8 giugno 2023, scrivono sul loro sito, nei serbatoi della centrale si contavano 1.335.381 metri cubi di acque reflue radioattive stoccate. Tuttavia, a causa del «fallimento della tecnologia di trattamento Alps (Advanced liquid processing system), circa il settanta per cento di queste acque dovrà essere nuovamente trattato».
Secondo l’organizzazione ambientalista, che cita alcuni scienziati con cui ha collaborato, «i rischi radiologici derivanti dalle scariche non sono stati completamente valutati». In più, gli impatti biologici del trizio, ma anche del carbonio-14 (o radiocarbonio), dello stronzio-90 (prodotto dalla fissione nucleare dell’uranio) e dello iodio-129 (un altro isotopo radioattivo che rappresenta uno dei principali prodotti di scarto dell’energia nucleare), «sono stati ignorati» dalle autorità. Tutte queste sostanze, seppur gradualmente e sotto la supervisione dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, entreranno in contatto con l’ecosistema marino della prefettura di Fukushima (ma non solo).
Greenpeace punta il dito direttamente contro l’Aiea, accusata di non aver indagato correttamente sull’efficacia degli Alps – come detto, non sono in grado di filtrare il trizio e altre sostanze – e di aver ignorato la presenza di «detriti di combustibile altamente radioattivo che ogni giorno continuano a sciogliersi nelle falde acquifere, contaminandole».
I membri dell’organizzazione ecologista lamentano anche l’assenza di una valutazione di impatto ambientale completa del piano di sversamento delle acque radioattive. La road map approvata dall’Aiea, infatti, considererebbe solo l’impronta ecologica sul territorio giapponese, omettendo i rischi per i Paesi vicini. Una lacuna che si scontrerebbe con la Convenzione delle Nazioni unite per il diritto del mare (Unclos): «L’Aiea non ha il compito di proteggere l’ambiente marino globale, ma non dovrebbe incoraggiare uno stato a violarlo», si legge nel comunicato di Greenpeace.
Shaun Burnie, specialista nucleare di Greenpeace East Asia, pensa che la decisione del Giappone sia dettata dal «mito secondo cui gli scarichi sono necessari per lo smantellamento di una centrale». L’esperto, che parla di «falsa soluzione», sostiene che nell’ex centrale nucleare ci sia lo spazio sufficiente per immagazzinare acqua, e che «lo stoccaggio a lungo termine rivelerebbe le lacune del piano del governo per lo smantellamento dell’impianto». Ci sono poi dei dubbi anche sulla compatibilità tra la dispersione in mare dell’acqua di Fukushima e la risoluzione 48/13 del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite, che nel 2021 ha stabilito che avere un ambiente «pulito, sano e sostenibile» è a tutti gli effetti un diritto umano.