L’italiano veroLa lacca, i secondi posti e altri motivi per cui Toto Cutugno era un mito nazionalpopolare

Il cantante morto a ottant’anni era famoso in un’epoca in cui la popolarità era solida e larga, da prima serata e da sagra di paese. Oggi la sua celebre canzone del 1983 viene canticchiata da generazioni che non hanno la più pallida idea di cosa significhi «un partigiano come presidente»

LaPresse

È il 2013. È il penultimo (per ora) Sanremo condotto da Fabio Fazio, e sono trent’anni dal Sanremo 1983. Quello che si ricorda perché Vasco Rossi arriva penultimo. Perché in gara c’è un frate. E perché la più moschicida tra le canzoni impresentabili, “L’italiano”, non vince.

Trent’anni dopo, nel 2013, è come se “L’italiano” – che tutti chiamano “Un italiano vero”, perché a volte le canzoni hanno i titoli che vengono dati loro dalla popolarità e non dagli autori – avesse vinto, e pare ovvio invitare Toto Cutugno.

Toto accetta con entusiasmo, e dice di voler fare «una cosa che lasci il segno». La Rai gli risponde come risponde abitualmente la Rai: non c’è una lira. Sai i budget, sai la crisi, sai la coda lunga di Lehman Brothers: vieni, canti “L’italiano”, non servono stranezze, la sanno tutti, son tutti contenti.

Toto acconsente. Poi qualche giorno dopo richiama: viene l’Armata rossa. I dirigenti Rai sbiancano: e chi la paga? Toto Cutugno risponde come può rispondere uno che da trent’anni incassa le royalties di una canzone che persino l’Armata rossa ha in repertorio: pago io.

Prima del riscaldamento globale, ci fu il buco nell’ozono, l’imminente fine del mondo di quando i bambini eravamo noi. Prima che il riscaldamento globale fosse colpa degli aerei privati delle star del cinema, il buco nell’ozono era colpa della lacca di Toto Cutugno.

I comici ci hanno campato per anni, a raccontarlo oggi mi viene da rivalutare “Lol”: siamo cresciuti con comici la cui idea di battuta era «Ogni volta che Toto Cutugno si pettina, il buco nell’ozono si allarga».

Toto Cutugno lo conoscono tutti per molte ragioni, la principale delle quali è che è stato famoso negli anni in cui essere famosi voleva dire essere davvero famosi. Non: essere di casa per qualche milione di persone che ti guardano anche mentre sei al gabinetto, e completamente ignoto a tutti gli altri.

Famoso quando esisteva il nazionalpopolare, in senso gramsciano ma più di tutto in senso baudiano. In quegli anni lì Toto lo prendevamo in giro tutti (che è il vero segno della popolarità), non solo per la lacca ma anche per i secondi posti a Sanremo. Non so neanche più quante volte sia arrivato secondo ai Sanremo degli anni Ottanta, ma ricordo quando m’innamorai fugacemente d’un belloccio che cantava una canzone scritta da lui.

Il belloccio si chiamava Luis Miguel, e arrivò anche lui secondo (un marchio di fabbrica) con “Noi, ragazzi di oggi”, scritta da Toto, come già lo era stata “Olympic Games”, cantata da Miguel Bosé: la me bambina s’innamorava di bellocci musicati da Toto, era una parafilia come un’altra.

L’unica volta che ho incrociato Toto Cutugno è stata quando Lorenzo Jovanotti ha affittato un negozio in piazza Gae Aulenti, a Milano. Era il Natale del 2017, e il giorno in cui andava a trovarlo Toto mi è sembrato doveroso andare in visita a un pezzo di storia d’Italia (se ricordo bene era anche la prima volta che si vedevano tra loro, Cutugno e Cherubini, anche se il secondo mi aveva raccontato di aver saccheggiato da un pezzo del primo l’«affacciati alla finestra, amore mio» di “Serenata rap”).

Quella sera Lorenzo gli chiese di quei sette secondi posti a Sanremo, e se arrivare sempre secondo gli bruciasse, e lui rispose: «Secondo te?». Poi si erano distratti prima di mettersi a cantare “Sarà quel che sarà”, la canzone di Tiziana Rivale che aveva vinto nell’83. Ancora mi dispiace che non l’abbiano fatta: era una di quelle canzoni che nei giorni di quel Sanremo lì mi sembravano stupendissime, e un minuto dopo erano dimenticate. Mica come “L’italiano”, che ancora la canticchiano generazioni che non hanno la più pallida idea di cosa significhi «un partigiano come presidente».

Del dietro le quinte, ricordo le facce del management di Lorenzo mentre Toto spiegava loro che era un delitto non farlo andare a esibirsi in Russia, che gli si sarebbe aperto tutto il mercato dell’est europeo, che avrebbe fatto un sacco di soldi. Come fai a dire a uno come Toto Cutugno che quel tipo di roba lì non esiste più, quel tipo di popolarità solida e larga, da prima serata e da sagra di paese, che non ha paura di sporcarsi coi mercati più impresentabili. Non glielo dici, e infatti quelli sorridevano e dicevano cose come «Ora vediamo».

La Russia è tornata l’anno scorso, quando ho pensato che bisognava intervistarlo, non solo perché quella sera a Milano Lorenzo gli aveva raccontato che Eugene, il cantante ucraino dei Gogol Bordello, gli aveva detto che “L’italiano” era la sua canzone preferita, perché incarnava il suo desiderio di libertà. Ma anche perché se non aveva qualcosa da dire sulla guerra lui, lui che era famoso lì quanto qui, lui che aveva pagato all’Armata rossa l’aereo e l’albergo e i tramezzini nei bar sanremesi.

Non era un’idea originalissima, come dimostrano tutte le interviste che in questo anno e mezzo avete letto sui giornali a tutto quel giro di cantanti famosi là e qua, Pupo, Al Bano, i Ricchi e poveri; ma non riuscii comunque a realizzarla, rinunciando dopo mezza giornata di rimbalzi tra il figlio, il manager, l’addetta stampa. Tutti gentilissimi e tutti perfetti per quello specifico tipo di celebrità ormai estinta: l’addetta stampa si chiamava Gessica, con la G.

Mi disse che magari più avanti, ora proprio no, Toto non riusciva a parlarne, soffriva troppo per questa situazione. Pensai che ci sarebbe stato tempo in futuro, perché il guaio con quelli che sono stati famosi negli anni in cui la fama era roba concreta è che pensi siano immortali, pensi non possano mai smettere d’essere un pezzo di paesaggio.

Pensai che prima o poi l’avrei intervistato, non tanto per sapere di Mosca, ma di Napoli. Di quando negli anni Novanta decisero che la sede Rai andava valorizzata, e mandarono lui e Alba Parietti a condurre una Domenica In da lì. Toto, lascia stare Vladimir, dimmi com’era lavorare con una che pensava d’esser lei quella famosa, tu che avevi fatto la storia delle canzonette e pensavamo che la cosa più rilevante di te fosse la lacca.

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