Viva l’esorcistaTravis Qualchecosa, il sesso dei sedicenni e la spietata sincerità di William Friedkin

Il rapper acclamato al Circo Massimo non l’ho mai sentito nominare. In compenso i miei neuroni hanno immagazzinato il momento in cui il regista del “Braccio violento della legge” ha messo a posto un giovane collega mitomane

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L’anno scorso sono andata a vedere il concerto di chiusura della tournée di Lorenzo Jovanotti. Tra gli ospiti c’era Tommaso Paradiso, e quindi quella è la sera in cui ho sentito per la prima volta, quattro anni e spicci dopo l’uscita, quella canzone in cui c’è il verso «ti mando un vocale di dieci minuti».

In genere a questo punto l’uditorio si divide tra chi dice «ma non è possibile che non l’avessi mai sentita», e chi mi conosce. Non ascolto la radio né altre forme di trasmissione dei viventi: la mia capacità di evitare le cose che non m’interessa non evitare è sopraffina.

Non è neanche una forma di rifiuto: mi piace tantissimo “Viva la vida”, dei Coldplay, ma quand’è uscita non l’ho sentita per più di un anno, finché non mi è passato davanti un video di Lady Gaga che la rifaceva alla Bbc. E non ho mai sentito una canzone di Lady Gaga finché Courtney Love non ne ha cantata una a una sfilata di Givenchy.

Il che non m’impediva di sapere chi fosse Lady Gaga, o che i Coldplay avessero in repertorio un brano intitolato “Viva la vida”, o che ci fosse una canzone di Tommaso Paradiso citata anche dai muri, con quel benedetto vocale di dieci minuti. Non è neanche una prerogativa esclusivamente mia: la cultura popolare è fatta di cose che conosci perché stanno nell’aria, anche se non le hai mai consumate.

È quindi con un certo sconcerto che dichiaro questa la settimana in cui non solo non conosco i dettagli, ma non ho neanche mai sentito nominare i fenomeni. È cominciata un paio di giorni fa, quando su Twitter ho intravisto una polemica che ci ho messo un po’ a ricostruire.

Su Netflix c’è a quanto pare una serie inglese per adolescenti, si chiama “Heartstopper”. Che non l’abbia mai vista è normale (l’ultima serie per adolescenti che ho visto è “L’albero delle mele”), ma non l’ho neanche mai sentita. Come aggravante, la polemica viene da tal Pietro Turano, che pure non ho mai sentito nominare ma che l’internet e le mie amiche con figli mi dicono essere noto (è un attore, ha fatto “Skam” – che invece appartiene al sottogenere «serie per adolescenti che so che esistono ma non guardo neanche se mi pagate»).

Insomma Turano dice com’è possibile che in questa serie non scopino mai, e l’internet insorge: hanno sedici anni, non ti vergogni, pervertito. Leggo e penso: ma se a sedici anni non scopate, quando lo fate? Con la crisi di mezz’età? Leggo e penso: ma se a sedici anni non scopate, cosa fate tutto il giorno? I compiti?

Poi mi metto a guardare l’anteprima della prossima puntata di quel manifesto di sedicennitudine senile che è “And just like that”. Miranda vede uscire, dalla stanza del figlio, la figlia di Charlotte. Corre dall’amica dicendole: scopano, e quella dice: ma figurati. Miranda insiste: era senza mutande, Charlotte dice: ma si saranno fermati a chiacchierare fino a tardi e poi si sarà addormentata castamente senza mutande, e Miranda conclude: certo, proprio quel che fanno gli adolescenti arrapati.

(Un paio di puntate fa, Charlotte vagava per New York nella tempesta di neve per comprare i preservativi alla figlia che voleva scopare, adesso è stravolta all’idea che scopi: ma non soffermiamoci sull’insensatezza di tutto, dai costumi alla sceneggiatura, nella serie più brutta e inutile del momento).

Quindi gli adolescenti scopano, non come nella serie inglese e sul Twitter italiano. O forse no. Forse, proprio come le sue attrici adulte in tempi di quiet luxury sono perennemente in tacchi e maniche a sbuffo come fosse il 1997, in “And just like that” gli adolescenti sono sceneggiati come adolescenti del Novecento, per i quali gli ormoni erano libido e non pastiglie che ti prendevi sperando di cambiare sesso e sentirti speciale.

Non ero ancora venuta a capo della sessualità dei diciottenni, quando ho scoperto che tutti i trentenni a Roma erano al concerto di uno che non avevo mai sentito nominare. Non una Lady Gaga, di cui non avevo mai sentito una canzone ma avevo letto decine di interviste; non un Tommaso Paradiso, di cui non avevo mai sentito una canzone ma conoscevo i ritornelli; non un Chris Martin, di cui non ho sentito canzoni famosissime ma l’Instagram della cui ex moglie seguo religiosamente. No, proprio uno – Travis Qualchecosa – il cui nome non mi era mai passato davanti.

L’unico elemento che mi diceva qualcosa, di quel che stava accadendo al Circo Massimo, era che ospite sul palco c’era l’ex marito di Kim Kardashian. Com’è possibile che a Roma decine di migliaia di persone sappiano che il posto giusto in cui andare a instagrammarsi è il concerto di uno della cui esistenza io sono ignara? È dunque questa la maturità, guardare i video dal Circo Massimo come mio nonno guardava la mia felpa con quei capelloni dei Beatles? Possedere le mutande fabbricate da Kim Kardashian riduce i miei gradi di separazione dal fenomeno musicale del momento?

Nel 2015 William Friedkin e Nicolas Winding Refn registrano una conversazione su “Il salario della paura”, un film di Friedkin del 1977. Friedkin, che è morto l’altroieri, è uno di quei registi che conoscete anche se non lo conoscete.

Se siete adulti, perché insomma ha fatto “L’esorcista” e “Vivere e morire a Los Angeles” e mica avrete vissuto in una cella d’isolamento, eravate vivi quando esisteva il cinema, qualcosina avrete visto. Se siete giovani e malati di presentismo, perché qualche settimana fa c’è stata una polemica su “Il braccio violento della legge”, ora di proprietà di Disney: la piattaforma ha tagliato una battuta in cui Gene Hackman diceva «nigger», e se siete giovani magari avrete pure pensato che Disney avesse ragione (che il dio della carenza di senso del ridicolo vi perdoni).

Refn, di cui non ho mai visto un film (il Tommaso Paradiso dei registi), è un fighetto che va molto di moda tra i cinefili svezzati da Mtv, con “Drive” vinse pure un qualche premio a Cannes (ma ora “Drive” è ufficialmente «quel film col tizio che fa Ken in “Barbie”»).

Uno dei vantaggi di questo secolo è che quando muore qualcuno di famoso c’è sempre chi ha abbastanza tempo libero da andare a cercare meraviglie e condividerle col mondo, quindi qualcuno è andato a ritagliare gli ultimi minuti di quella conversazione del 2015. Refn aveva fatto di recente “Solo Dio perdona”, un altro film col futuro Ken di “Barbie”, e l’avevano stroncato. Friedkin si mette a parlare della consapevolezza del valore dei propri film contrapposta all’accoglienza che ricevono, e lo sventurato dice, del suo compitino, «La penso come te, non ho rimpianti rispetto a “Solo Dio perdona”, penso che sia un capolavoro e lo è».

E a quel punto Friedkin gli spiega due o tre cose. «Se quello è un capolavoro, “Quarto potere” cos’è?». Ma anche che i dolori sono gli amici che muoiono, mica i film che non incassano. Ma anche che «la riscoperta» di cui continua a cianciare il giovane coglione, il successo tardivo, non è una categoria, «non l’hanno riscoperto: è sempre stato lì», obietta il venerato maestro senza niente da dimostrare quando il giovane coglione gli dice che “2001: Odissea nello spazio” non incassò bene quando uscì ma poi l’abbiamo riscoperto.

Soprattutto, Friedkin gli spiega, al giovane coglione, che i quattro anni trascorsi e secondo lui sufficienti a valutare la capolavoritudine del suo compitino, sono «un brufolo sul buco del culo del mondo»: aspetta i settant’anni passati da “Quarto potere” e poi ne riparliamo, ragazzino.

Refn sbuffa, perché è un giovane coglione che ha passato la conversazione a dirgli «io sono una versione giovane di te» ed è davvero convinto che quello sia un confronto alla pari: è lui il regista che piace alla gente che piace, diamine.

Nel 1978 al Teatro Tenda a Roma fanno una serata per Eduardo De Filippo. Vittorio Gassman – che era Vittorio Gassman, all’epoca cinquantaseienne – lo presenta, Eduardo entra e sovrappone due racconti. Quello di “Filumena Marturano”, scritta perché sua sorella Titina era dispiaciuta d’avere una parte marginale in “Questi fantasmi”. E quello di una cosa teatrale andata male trent’anni prima, e di come il giovane Gassman fosse stato all’epoca affettuoso con lui.

(Un giorno poi dovremo parlare di come il genio sia in effetti velocità d’esecuzione: Eduardo che scrive “Filumena Marturano” in dodici giorni, Jovanotti che scrive “Piove” in due ore. Un giorno, ma non oggi).

Gassman non dice a Eduardo che le cose andate male poi il pubblico delle generazioni successive le riscopre, non dice d’essere un giovane De Filippo, non dice niente. Gassman – non esattamente uno senza ego – dice suppergiù tre parole in dieci minuti, lasciando intatte le pause di Eduardo, i cambi di registro di Eduardo, la grandezza di Eduardo. E quindi forse è questa, la maturità: decidere di usare i propri neuroni per immagazzinare vite e opere dei Gassman, e non dei giovani coglioni.

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