Pensa oggiCanzone vecchia fa buona tv, e altri difetti di reputazione di noi retromaniaci

Non si capisce perché i musicisti si ostinino a scrivere brani nuovi, ma non hanno capito che agli spettatori di Raiuno, dell’Arena e delle feste bolognesi interessano solo i pezzi già famosi da squarciagolare?

Vinili
Foto di Tibor Janosi Mozes su Pixabay

Una volta avevo degli amici che di mestiere facevano la musica. Poi mi hanno tolto tutti il saluto, alla centesima volta in cui mi parlavano entusiasti della loro nuova canzone, e io rispondevo: ma cosa fai canzoni nuove a fare. Mi hanno tolto il saluto per colpa di “Furore”.

“Furore” cominciò ventisei anni fa, e fu subito chiaro che era tutto quel che avevamo sempre voluto dalla tv e dalla vita: canzoni di cui conoscevamo le parole. Canzoni alla tele che potevamo squarciagolare dal divano.

Sì, a quel punto c’era già da cinque anni “Karaoke”, il programma che aveva reso famoso Fiorello, ma ho una rivelazione pazzesca per i lettori che da trent’anni leggono noialtri che spieghiamo il fondamentale posto del “Karaoke” nella storia della tv: nessuno di noi l’ha mai visto.

Nessuno di noialtri pagati per capire il mondo guardava – nel 1992, alle otto di sera – un tizio che faceva cantare degli sconosciuti in una piazza. Non c’era alcuna intersezione tra l’insieme dell’ampio pubblico che aveva allora il programma, e quello dell’ampio numero di editorialisti che nei trent’anni successivi hanno spiegato il programma.

Persino io, che avevo vent’anni e non ero pagata per spiegare alcunché, ma avevo un tasso minimo di ambizioni intellettuali, se non ero a far la zoccola in giro facevo quel che si faceva nel Novecento alle otto di sera: guardavo il tg.

Gli editorialisti di allora avrebbero dovuto studiare con più attenzione il pubblico del “Karaoke” che, in un secolo in cui non c’erano le notizie sul telefono, alle otto di sera se ne fotteva di sapere cosa fosse successo quel giorno e guardava la signora Pina che nella piazza di Crotone cantava Ivana Spagna. Erano l’umanità del futuro, e come sempre non sono stati capiti.

E quindi è dovuto arrivare Alessandro Greco, con “Furore”, perché noialtri intelligentissimi capissimo, perché tutti capissero, perché Sanremo diventasse un festival con quattro serate inutili e una di canzoni famose, perché le canzoni vecchie diventassero protagoniste.

E perché io cominciassi a dire agli amici musicisti: ma cosa fai canzoni nuove a fare, devi prendere esempio da Billy Joel, non fare mai più un disco e riempire per anni il Madison Square Garden solo coi pezzi vecchi. Per ragioni misteriose, essi hanno preferito togliermi il saluto che emulare Billy Joel e il suo perpetuo best of.

Sabato sera, mentre un paio di milioni di italiani guardavano su Rai 1 gli zigomi rifatti di Jim Kerr che cantavano “Don’t you (forget about me)”, e mentre a Milano si rovesciava un battello su cui i Kolors (chiunque essi siano) cantavano “Italodisco” (quella del Festivalbar con la cassa dritta), io guardavo alcune decine di bolognesi che, all’ultimo piano del Teatro Comunale, ballavano “Moonlight shadow” in mezzo a lampadari, velluti, e locandine di “Lohengrin”.

Fabio De Luca aveva presentato il suo libro, e – in omaggio a quell’83 che racconta nel tomo – poi metteva i dischi di quel decennio (una differenza rispetto al Novecento è che adesso si mette una pennetta e il povero dj non deve più trascinarsi valigie di vinili, ma il lessico è rimasto quello).

Guardavo i bolognesi di varie età e mi facevo domande sui loro consumi culturali: quella lì che squarciagola con più impeto di me «and just because it’s easier than the truth, oh, if there’s nothing else that I can do», ma a occhio potrebbe essere mia figlia, quella lì perché conosce le canzonette della mia adolescenza? È come quando io canticchiavo “I watussi” perché l’avevo sentita nei film vecchi o nelle compilation che comprava mia madre?

Fabio metteva “La isla bonita”, e io scoprivo che c’è un automatismo persino più potente di quello per cui è impossibile girare per il centro di Bologna senza prima o poi pronunciare le parole «non si perde neanche un bambino». È l’automatismo del «Pensa oggi», quello per cui di ogni prodotto d’epoca non puoi fare a meno di notare quanto sia inaccettabile per i tic contemporanei.

L’isola che evocava Madonna nell’86 era il posto «where a girl loves a boy and a boy loves a girl», e io dicevo a me stessa accidenti, sai oggi quante polemiche sull’eteronormatività, povera Madonna che s’illudeva d’essere la più frociarola dello star system.

Intanto su Rai1 c’era Adriano Pappalardo, che cantava quella sua solita unica canzone famosa, che a un certo punto dice «Guai a quello che ti tocca»: “Ricominciamo” è del 1979 e, poiché le parole «mascolinità tossica» non le conosceva nessuno, una canzone poteva essere solo una canzone, e non un manifesto etico, e ci si potevano risparmiare le polemiche. (Non sto rimpiangendo il ’79, giuro: c’era il terrorismo e non c’era abbastanza aria condizionata. Sto solo constatando che era diverso).

È del 1979 anche “La mia banda suona il rock”, che mi torna in mente quando Fabio mette “Nell’aria”, che è del 1983. Erano i due pezzi che ballavo sulla scala del Controsenso, la discoteca in cui andavo nell’88: nelle discoteche già si mettevano le canzoni vecchie, quindi eravamo già retromaniaci a sedici anni? Ben prima di “Furore”, del “Karaoke”, della serata delle cover di Sanremo? Tra cinque anni saremo già alla retromania di “Italodisco” (quella del Festivalbar con la cassadritta), presentata come successo vintage da un Amadeus del 2028?

La serata di Rai 1, registrata all’Arena di Verona, si chiama “Arena Suzuki” (una differenza rispetto al Novecento è che adesso lo sponsor può avere il nome nel titolo, cosa che allora ci sarebbe parsa impensabile, e che io continuo a chiedermi se sia commercialmente sensata: non finisci per dimenticarti che quello fa le macchine e quindi distaccarti del tutto da un eventuale desiderio di comprarle? Per uno che viva a Brooklyn, Barclay è ancora una banca, o solo il nome del palasport in cui va a vedere i concerti?).

L’arena dello sponsor fa una cosa che i poveri autori di programmi non tematici cercano di fare invano da decenni: far venire il cantante solo a fare la sua vecchia canzone famosa, senza costringere noialtri a sorbirci il pezzo nuovo di cui non frega niente a nessuno ma che lui s’illude di vendere. Alan Sorrenti arriva, fa “Figli delle stelle” (che pure mettevano al Controsenso, e che era del 1977) e “Tu sei l’unica donna per me”, saluta e se ne va e siamo tutti contenti. No concessioni ai desideri del cantante: la tv ideale.

Fuori dal teatro Comunale c’è via Zamboni, con tutte le luci spente in modo che sui giornali possano finire notizie di risse e accoltellamenti proprio come sarebbe successo quarant’anni fa; e che le poverecriste che cercano di tornare dal Comunale inciampino in buche della pavimentazione dei portici che è impossibile vedere (per fortuna rispetto al Novecento sono aumentati i sacchi d’immondizia sparsi, che attutiscono eventuali cadute); e che il sindaco di Bologna, come fosse il 2023, continui a instagrammarsi autocertificando la città più accogliente d’Europa.

Dentro c’è un’altra ucronia, una in cui i bolognesi fanno il trenino su “Last Christmas”, come fosse il 1986, ma tenendo ben alti i telefoni per la diretta Instagram, come fosse il 2023. Alla consolle, Fabio De Luca borbotta «una volta ero un dj rispettabile», come fossimo in uno qualunque di quei secoli in cui esisteva il concetto di reputazione.

X