La manovra finanziaria del governo sarà un esercizio di mediazione tra le varie istanze di partito, personali, dei ministeri e infine anche di sindacati, stampa e partiti di opposizione. Si sceglierà di fare di tutto un po’, senza vere e proprie scelte nette di cui il Paese avrebbe disperatamente bisogno. Come sempre, anche durante l’ottimo governo Draghi, che doveva poi trovare approvazione dal Parlamento ampiamente popolato da un numero eccessivo di populisti di Cinquestelle e Lega, eletti nella peggiore tornata elettorale italiana, quella del 2018.
Questa mediazione di basso profilo è esattamente l’opposto di ciò che il Paese dovrebbe fare. Si deve finalmente scegliere perché la luna di miele dei tassi di interesse zero è finita, e non tornerà. Come è finita anche la possibilità di derogare dal percorso di rientro del debito pubblico, che con il Covid e per quattro anni (dal 2020 al 2023) non ha posto praticamente vincoli alla spesa, anche con i massicci acquisti di titoli di Stato della Bce, mentre adesso ritornano in auge le regole e i paletti di bilancio.
Come se questi due effetti già devastanti per le finanze pubbliche non bastassero, l’Italia ha anche l’eredità contiana del Superbonus centodieci per cento. Una follia pura e una serie di spese inutili e populiste che costeranno a tutti i contribuenti ben oltre cento miliardi di euro – sprecati in spese non solo gonfiate per i prezzi assurdi, ma anche spesso inutili in gran parte o semplicemente eccessive rispetto al valore, e per di più allocate a una fascia di popolazione che non ne aveva bisogno.
Non solo la stagione delle vacche grasse è terminata, ma adesso come sempre arriva l’epoca della carestia. La Germania è in crisi nera; la Cina si sta chiudendo nel modello statalista e dirigista dittatoriale che allontanerà investimenti e crescita; la svolta ecologista pone obiettivi irrealistici e costosissimi a carico della collettività e in più danneggerà pesantemente l’industria europea a vantaggio di Cina e India, che non faranno nulla o quasi se non approfittare della ritrovata competitività.
I nostri partner commerciali più importanti non aiuteranno, anzi forse porranno un freno alla nostra crescita economica per i loro problemi interni. Si aggiunga il devastante inverno demografico, che è peraltro solo all’inizio, e le prospettive di crescita del nostro Paese non sono rosee.
Sarebbe tempo di scelte, di scelte anche dure e impopolari, sarebbe tempo finalmente di mettere a mano all’assetto istituzionale che ha direttamente e pervicacemente impedito che queste scelte dure si facessero per oltre trent’anni dalla fine della Prima Repubblica. Ma non si vedono i presupposti politici o istituzionali perché ciò accada.
La maggioranza è abbastanza solida e legittimata dal voto, ma non spicca per leadership, competenze e visione. E soprattutto è penalizzata dal pervicace populismo di Matteo Salvini e della Lega – pronto a sacrificare qualsiasi visione di lungo periodo per acchiappare un misero un per cento in più alle prossime elezioni –, e dalla progressiva involuzione di Forza Italia, che dopo Berlusconi non ha più alcuna capacità di incidere e tra poco si trasformerà progressivamente nel terreno di caccia elettorale degli altri partiti.
Giorgia Meloni ha stupito molti, ma adesso deve affrontare un compito arduo. Deve scegliere in un Paese che non è abituato alle scelte, ma ha sempre preferito il compromesso rimandando il problema. Un Paese che preferisce sempre l’oggi rispetto alle generazioni future, che privilegia vecchi e danneggia i giovani, che non investe ma consuma lentamente la sua ricchezza e il suo benessere, senza porsi mai il problema se questo sia sostenibile.
Non è direttamente Meloni il problema, ma l’incapacità collettiva della nostra opulenta società decadente di massa di affrontare la realtà. Il problema di Meloni è che governa lei, e sarebbe suo compito affrontare dopo tanti anni questa emergenza.
Quali sono le scelte più difficili?
Piuttosto che dire a chi diamo soldi con la finanziaria, bisogna affrontare l’annosa scelta di segnalare a chi togliamo risorse dello Stato, dal momento che mancano soldi per i motivi evidenti sopra menzionati.
E scegliere a chi togliere non è mai stato fatto se non in modo surrettizio e non trasparente. Soprattutto, andrebbero evidenziate in modo netto le scelte redistributive tra categorie di persone diverse, anche a costo di scelte dolorosissime ma necessarie. Lo Stato italiano intermedia circa ottocento miliardi di entrate fiscali con ottocentoottanta miliardi di spese. Il saldo è grosso modo il deficit che accresce il nostro debito pubblico e che deve lentamente andare a zero, o quasi.
Le entrate sono molto difficilmente aumentabili per un carico fiscale ai limiti superiori in ogni confronto internazionale. E anche banalmente calcolando le imposte pagate dai 2,4 milioni circa di italiani (il quattro per cento della popolazione totale) con un reddito dichiarato di oltre cinquantamila euro, che sostengono il quaranta per cento del carico fiscale (sic). La storica narrazione della sinistra bertinottiana, molto cara oggi a Elly Schlein, «facciamo piangere i ricchi» si scontra con questo dato di fatto. Il quattro per cento paga il quaranta per cento. E forse pensare che quei 2,4 milioni di persone sostengano l’onore dell’aggiustamento della finanza pubblica sembra onestamente un po’ azzardato anche per le menti belle della sinistra.
Ma la scelta di dove spendere invece una cifra enorme, cioè ottocento miliardi circa al netto degli interessi, che non sono sindacabili, andrebbe fatta subito e chiaramente. E purtroppo andrà prima o poi fatta la scelta di dove non spendere, scegliendo tra categorie che rappresentano voti, interessi, numerosità ma anche prospettive di sviluppo, etica e giustizia sociale molto diverse tra di loro.
Giovani contro vecchi
L’Italia è un Paese di anziani con il welfare più generoso del mondo. La spesa per pensioni e welfare è superiore in percentuale sulle entrate fiscali complessive al trentacinque per cento. La crisi demografica farà si che un numero decrescente di lavoratori debba pagare il welfare di un numero crescente di pensionati. Non ci vuole un fine matematico per capire che i trecentottantacinquemila nati nel 2023 saranno oberati di tasse per pagare le pensioni di novecentoventimila nati ogni negli anni tra il 1960 e il 1970. Ogni lavoratore nato nel 2023 dovrà sostenere il peso del welfare di circa 3,5 persone nate tra il 1960 e 1970.
Quindi si deve scegliere se mantenere il livello di welfare attuale, tassando in modo esponenziale i giovani, oppure fare ciò che in Italia non si può nemmeno pensare o scrivere, cioè tagliare il welfare. Lo slogan «le pensioni non si toccano» si deve accompagnare con la diretta conseguenza «tassiamo di più chi lavora». Tertium non datur.
Qualcuno poi dovrebbe spiegare perché nel mondo del lavoro l’indicizzazione dei redditi all’inflazione dipende giustamente dalla capacità competitiva delle imprese di sostenere costi più alti o attrarre lavoro più qualificati con salari superiori, mentre i ventuno milioni di pensionati ricevono indiscriminatamente una indicizzazione pari al cento per cento del tasso di inflazione il 1° gennaio di ogni anno.
È proprio cosi impossibile limitare o azzerare l’indicizzazione oltre un livello molto basso di pensioni mensile? Invece Salvini lotta per aumentare il welfare con pensioni anticipate e quota 103 e altre diavolerie. Evita però di dire che questo comporta più tasse per i giovani, anche se il nesso causale tra le due scelte è palese ed evidente, contando sul fatto che il numero di pensionati e assistiti supera, e sempre di più lo farà nei prossimi anni, il numero di lavoratori.
Ci hanno propinato per anni e per cultura catto-comunista il divario tra ricchi e poveri. Il vero drammatico divario di questo Paese è tra chi è nato grosso modo prima del 1980 e chi è nato dopo. E finora, pervicacemente, malevolmente e senza ritegno tutte le scelte di politica economica e fiscale hanno favorito gli anziani e per converso penalizzato i giovani, senza che nessuno, ma proprio nessuno, levasse una voce per fermare lo scempio.
Lavori esposti alla concorrenza e lavori “protetti”
Esistono una miriade di lavori protetti in Italia, lavori non esposti alla concorrenza che godono di privilegi assurdi. Non parlo del pubblico impiego in sé o in toto, anche se molti lavori “protetti” esistono certamente anche nel pubblico impiego. Parlo della burocrazia improduttiva che una sequela di governi statalisti prevalentemente di sinistra ha imposto al Paese. Il numero di “controllori”, sovrastrutture burocratiche, regolamenti a cui le imprese sono sottoposte non ha senso. Tutto si basa sulla nozione che lo Stato deve essere pervasivo nel permettere, regolare, chiedere informazioni, multare, in qualche modo ostacolare l’iniziativa privata che è a priori ritenuta potenzialmente truffaldina, sregolata e in qualche modo da limitare. Una visione statalista e burocratica che ci costerà moltissimo in termini di tenore di vita e di benessere senza apportare vantaggi evidenti sul fronte della limitazione degli abusi (che è sacrosanta).
Un’azienda oggi in Italia deve remunerare il collegio sindacale, i revisori, le strutture per la 231, per la 626, adesso anche per il whistleblower – cioè la necessita di ascoltare chiunque abbia a segnalare irregolarità all’interno dell’azienda, redigere il bilancio verde, studiarsi una legislazione fiscale che rivaleggia in estensione verbale con l’enciclopedia Treccani, farsi carico di una serie di leggi e regolamenti cha aumentano ogni anno e comportano costi ed esborsi. Si devono trasmettere dati all’Inps, alla camera di commercio, all’Istat, dati che lo Stato ha già e riceve già in formato elettronico, ma che chiede due, tre o quattro volte perché ogni ente che chiede può impiegare strutture di governo scelte essenzialmente dai partiti (camere di commercio ad esempio) e quindi esercitare potere, sottogoverno e produrre costi diretti e indiretti nelle aziende.
Un esempio tra mille. I cedolini fiscali delle buste paga sono a disposizione dell’Inps ogni mese e contengono tutte le possibili informazioni su sesso, età, stipendio, contributi e quant’altro. Che bisogno c’è di chiederle altre due volte (Istat e UnionCamere) con moduli di venti pagine da riempire con annessa sanzione in caso di non adempimento? Il bisogno vero è nominare presidenti, vicepresidenti, consigli di amministrazione e migliaia e migliaia di posti di sottogoverno per lo più clientelari che portano voti.
Un altro esempio. Ci sono in Italia circa ottomila comuni di cui milleottocento circa con meno di mille abitanti cioè circa il ventitré per cento. In questi milleottocento comuni vive meno del due per cento della popolazione. Poi ce ne sono altri tremilacinquecento circa tra mille e cinquemila abitanti. Esiste una legge che favorisce accorpamenti che non ha dato risultati tangibili. Possibile una decisa azione coercitiva?
Un ultimo esempio
Ci sono in Italia, circa ottomila società, enti di diritto pubblico a carico dello stato per risorse e spese. Io penso che almeno quattromila siano del tutto ridondanti se non dannose. Un governo di legislatura potrebbe darsi un obiettivo su tre anni, comunicare ogni trimestre i risultati e attraverso liquidazioni, accorpamenti e fusioni o scioglimenti raggiungere il dichiarato obiettivo di dimezzare il numero. Ogni società ha un presidente rispetto al dichiarato (remunerato), un cda (remunerato), una sede e una struttura di governo che costa. La percentuale di spesa che va effettivamente allo scopo sociale è spesso inferiore al cinquanta per cento.
I recipienti di questi costi sono i “protetti”, cioè coloro che prosperano in enti o società o strutture parasociali senza alcuna concorrenza, la cui necessita è stabilita per legge, la cui tariffa è de facto stabilita da un monopolio o una corporazione e la cui produttività è sostanzialmente zero, nel senso che non contribuiscono alcunché alla generazione di valore aggiunto. Progetto di riduzione alla metà e ogni tre mesi conferenza stampa con i risparmi ottenuti.
Nel Paese del collegio sindacale, della revisione di conti, della 231 sono successi tranquillamente Cirio, Parmalat e Monte dei Paschi di Siena. C’è chi sostiene che senza la miriade di regole regoline e regolette molte di più sarebbero stati i casi di evidente malversazione societaria, ma personalmente ritengo all’opposto che regole meno costose ma più penalizzanti (es interdizione a vita da qualsiasi carica o attività economica indipendente, in caso di conclamata colpa o dolo estesa anche al consiglio di amministrazione in carica) poterebbero avere più effetto con molti meno costi.
I lavori “protetti” sono in molti territori (al Sud specialmente) gli unici disponibili, ma il costo sulla competitività di questa tassa occulta è abnorme.
Corporazioni contro collettività e libero mercato
Da anni sentiamo parlare di «liberalizzazioni» (le lenzuolate di Pier Luigi Bersani fanno sorridere se si è molto di buon umore però, in caso contrario, domina la rabbia per la presa in giro), ma non succede mai nulla. Prendere un taxi a Milano o a Roma quando piove è un’impresa titanica. Ma non si possono dare nuove licenze pena il blocco totale della città. La vicenda Alitalia dove dodicimila lavoratori hanno tenuto in ostaggio un intero paese per vent’anni costando circa dieci miliardi alla collettività cioè poco meno di un milione di euro a testa (oltre al loro stipendio), è tristemente nota.
Il costo di un atto notarile è probabilmente il più alto al mondo e va a vantaggio di una corporazione di 5143 persone con il reddito medio più alto in Italia. Utilities, farmacisti, librai (con i libri di scuola), certificatori e asseveratori di tutti i tipi (che poi non hanno mai alcuna responsabilità se la certificazione risulta falsa vedi il caso del centodieci per cento), e in generale tutte le categorie che svolgono attività che godono di prezzi o quantità o regolamenti che escludono la concorrenza e vengono imposti dallo Stato, sono una tassa occulta per tutti noi.
Dall’altra parte ci sono essenzialmente le imprese soggette a concorrenza internazionale che invece vendono e sopravvivono solo se hanno capacità di essere sempre costantemente competitivi. Se il pezzo o la qualità del prodotto non è adeguata si fallisce o si chiude. Questa è la dura legge del mercato per chi sta sul mercato davvero.
Se però il peso dei beni e servizi delle corporazioni supera il lecito lentamente il Paese non cresce più, anzi decresce perché in altri Paesi si è generalmente più competitivi. E dove si è più competitivi si investe di più, allargando il solco in modo progressivo e inesorabile.
Però scardinare i privilegi delle corporazioni in un Paese dove taxisti, agricoltori, le cooperative e i loro privilegi incredibili, o qualunque tipo di corporazione può bloccare la convivenza civile è praticamente impossibile. Quasi nulla è stato fatto in trent’anni, e anzi molte corporazioni si sono rafforzate a scapito della collettività.
L’impatto di tutto questo sulla crescita del Paese è stato semplicemente strabiliante, in negativo. Dal 1990 al 2022 se si calcola la media di incremento annuale del Pil, l’Italia è al penultimo posto al mondo con una crescita del ventotto per cento in trentatré anni (fonte: Banca mondiale). Peggio di noi ha fatto solo l’Ucraina, che nel 2022 ha avuto la guerra e nel 1990-94 ha perso il quaranta per cento del Pil dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Il Pil non è la felicità e siamo tutti d’accordo, ma col Pil si paga il welfare, la sanità, l’istruzione e adesso dovremo pagare anche la difesa visto che gli usa sembrano meno propensi ad assumersi il cento per cento dell’onere e qualcuno molto vicino a noi sembra essere molto aggressivo ai limiti del pericoloso. Siamo ultimi al mondo, senza se e senza ma. Ci sarà un motivo o qualcuno pensa che sia solo sfortuna? Senza Pil bisogna ridurre il tenore di vita, non ci sono altre soluzioni in ambito europeo e con un debito già troppo elevato e quindi da ridurre.
Per far crescere il Pil servono investimenti, produttività, deregolamentazione, istruzione e ognuna di queste attività richiede ingenti risorse che vanno prese da altre spese meno produttive. Non abbiamo scelta e questa finanziaria (così come le prossime tre finanziarie purtroppo) – devastata dall’ineffabile Giuseppe Conte con il suo scellerato super bonus – è la prima che presenta il conto dopo che nel 2020 e 2021 c’era il “liberi tutti” da Covid e nel 2022 l’effetto della regalia di Stato e il confronto con il disastroso 2021 ha nascosto tutti i problemi.
Da adesso in avanti si può solo stringere la cinghia, ma se continuiamo a sprecare arriverà anche il digiuno. Inesorabilmente.
Le scelte sono perciò non più rimandabili e per definizione dovranno anche essere dolorose. Scegliere vuole dire scontentare qualcuno, non accontentare (apparentemente) tutti. Il dibattito però oggi è sul salario minimo e non ci si rende conto che per i due terzi del Paese (che produce però l’ottanta per cento delle entrate fiscali e il novanta per cento dell’export) il problema non è il salario minimo, bensì drammaticamente la mancanza totale di offerta di lavoro – lavoro vero con contratti ben superiori a nove euro l’ora per capirci. Mancano persone e mancheranno drammaticamente di più anno dopo anno, con l’ovvia e assolutamente auspicabile conseguenza che i salari saliranno e anche molto nei prossimi anni. Alla faccia del salario minimo di qualsivoglia importo.
Oppure si dibatte sulla scuola e nessuno si preoccupa di analizzare quali siano le conseguenze sugli organici e le strutture del passaggio (che è già certo) da seicentomila nati quindici anni fa a trecentosessantamila nati nel 2025. Qualcuno ci sta pensando? Perché succede con assoluta certezza e tra sei anni in prima elementare ci andranno sei bambini su dieci rispetto a quindici anni fa. Numero di insegnanti identico, quindi per definizione o erano troppo pochi quindici anni fa o saranno troppi tra cinque anni. Quale delle due ipotesi è vera? Se ne può parlare?
Oppure si dibatte sui diritti, ma mai nessuno parla di doveri, perché parlare di doveri non porta voti, mentre evocare un mondo pieno di diritti perché «c’è lo Stato» è più bello. Basta riascoltare Conte quando diceva orgoglioso «rifatevi la casa, tanto paga lo Stato, capite?». Un esempio fulgido di statista. Abbiamo dato il diritto a rifarsi la casa agli italiani. Un successo tutto e solo nostro nel campo dei diritti. Campo già ampiamente popolato nel nostro Paese.
Questo Paese ha incredibili risorse e ha un potenziale straordinariamente grande, inespresso e soffocato da trent’anni di cattiva gestione politica. Non è sensato che a breve saremo il fanalino di coda dell’Europa appena davanti alla Grecia (che incidentalmente adesso sta crescendo benissimo governata in modo corretto e dopo una crisi devastante e una povertà davvero diffusa), appena davanti alla Spagna che non ha nemmeno per sogno una struttura industriale, manifatturiera e di export paragonabile alla nostra. Eppure, i dati dicono questo. A breve tutta l’Europa dell’est avrà Pil pro capite superiore al nostro, la velocità con cui tutti i paesi dell’Europa balcanica e orientale stanno crescendo è impressionante.
Non siamo più stupidi e non siamo meno dediti al lavoro dei polacchi o degli sloveni o degli spagnoli. Siamo solo stati governati molto molto peggio da una classe politica autoreferenziale, che aveva l’unico obiettivo di tenere fuori Silvio Berlusconi e perpetuare il proprio potere. O siamo stati governati da Berlusconi stesso, per pochi anni: evidentemente non ha realizzato molti dichiarati obiettivi oltre alla protezione del suo impero. Poi sono venuti i Cinquestelle e lì si è consumata una vera e propria sciagura nazionale, con la sagra dell’incompetente che governa (vengono alla mente altri aggettivi poco appropriati), Conte primo fra tutti, per quattro anni.
Questo governo non ha l’occasione ma ha l’assoluta necessità di iniziare a dare una svolta, perché davvero è l’ultima occasione. La prognosi non è per nulla benevola visto l’insieme delle competenze espresse, ma abbiamo sempre stupito noi e il mondo con la nostra capacità di superare le prove più incredibili. Il benessere e il tenore di vita dei nostri figli dipendono essenzialmente dai prossimi 3-5 anni. Dopo sarà ahimè troppo tardi e dovremo rassegnarci, in mancanza di notevolissimi cambiamenti, a un lento inesorabile, fastidiosissimo declino.
Io ho fatto di tutto, in parte non riuscendoci, per convincere i miei figli a restare in Italia, nonostante le sirene del lavoro in altre nazioni fossero forti e chiare. Ho sempre pensato e sostenuto con loro che questo Paese, pur con mille difetti, sia il più bello al mondo, dove si incontrano persone splendide che lavorano, innovano, si impegnano a costruire un mondo migliore ogni giorno e ci sono riusciti realizzando imprese uniche al mondo, bellezza, fascino ed esperienze di vita invidiate da tutto il mondo.
Non vorrei mai che i miei figli dicessero ai miei nipoti attuali e futuri che non c’è nulla da fare e che quindi è bene che se ne vadano altrove per realizzare al meglio i loro talenti. Sarebbe una cocente sconfitta per me e per la mia generazione.
Ma se non facciamo nulla oggi e subito, temo che sia una prospettiva molto probabile e molto molto triste.