«Il carcere, essendo deputato a far scontare una pena, costruisce volutamente una forma di stigmatizzazione: la persona viene etichettata come qualcuno che deve espiare una colpa. Lo stigma non è quindi un aspetto aggiuntivo, ma costitutivo del sistema penale». A parlare così è Francesca Vianello, professoressa associata di Sociologia del Diritto, della Devianza e del Mutamento sociale all’Università di Padova e parte del consiglio direttivo di Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale. «Sarebbe auspicabile, tuttavia, che, durante questo trattenimento, il soggetto fosse spinto a ricostruirsi un’identità diversa», continua la professoressa, «e che, una volta uscita dal carcere, la persona potesse essere libera da questa forma di stigmatizzazione. Ovviamente non va così e un grande problema di chi viene rilasciato è riuscire a liberarsi dall’etichetta che gli è stata imposta».
Lo stigma costituisce un’identità sociale che non è più intatta: verso chi ne è oggetto non abbiamo più un atteggiamento e delle aspettative neutri, come quelli che riserviamo a chiunque altro. «Si tratta di qualcosa che subito rimanda a degli stereotipi e la detenzione, anche se finita, è un’etichetta che rimane nel tempo, oltre che nella memoria del singolo, anche nella società», dice l’esperta, «tanto più che adesso chiunque può navigare su internet e vedere cosa ha fatto una persona anche dieci, venti o trent’anni prima. Per questo ci sono state campagne per il diritto all’oblio, a non confrontarsi continuamente con il proprio passato».
Il lavoro: un elemento chiave per abbattere lo stigma
Un tema estremamente rilevante, quando si parla di lotta allo stigma, è quello del lavoro, che in Italia continua – secondo gli esperti – a essere poco indagato. Chi viene rilasciato ha l’urgenza di mantenersi: spesso esce dal carcere portando con sé solo con un biglietto del bus e un sacco di plastica con i propri averi. «Le percentuali di recidiva, in Italia, sono altissime, dal 70 al 75%», dice Vianello. «Il lavoro raggiunge circa un quarto dei detenuti e spesso si tratta di un lavoro molto dequalificato. La maggior parte di chi ha un impiego ce l’ha alle dipendenze della struttura in cui è recluso: nonostante gli sgravi fiscali per le cooperative e le imprese che impiegano chi è in carcere, solo 5mila detenuti su 57mila lavorano all’esterno».
In più, anche chi trova posto in organizzazioni esterne al penitenziario mentre sconta la pena, raramente riesce a conservare l’impiego anche quando termina il periodo di reclusione. Questo sarebbe, però, un passo importantissimo per uscire da una logica stigmatizzante, che rischia di fomentare dei pregiudizi che spingono le persone alla recidiva. Secondo Andrea Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone, la disuguaglianza è qualcosa che comincia ancora prima della carcerazione.
«Tante tra le persone nei penitenziari vengono da storie complicatissime, sono un gruppo di persone particolari in termini di fragilità sociali, problemi di salute, anche mentale, con un rapporto quasi inesistente col sistema sanitario nazionale. In parte, si trovano in carcere proprio perché si trovano in queste condizioni: se avessero una situazione diversa, con più possibilità, probabilmente avrebbero accesso a una misura alternativa. E il carcere nella maggior parte dei casi fa ben poco per queste persone». Se è vero, come ammette l’esperto, che anche questa visione può essere in sé stessa una sorta di stigma – perché appiattisce delle individualità singole e differenti su un pregiudizio comune – è altrettanto vero che bisognerebbe puntare di più sulla formazione professionale, perché le persone detenute escano con maggiori conoscenze e competenze rispetto a quelle con cui sono entrate e riescano a liberarsi in questo modo della pensante etichetta che portano addosso.
In Italia esistono istituti penitenziari che garantiscono a chi è rinchiuso al loro interno progetti virtuosi di avviamento all’impiego, ma non sono la regola, anzi. La situazione è fortemente diseguale tra diverse strutture della penisola. Un esempio particolarmente significativo è quello del carcere di Bollate, dove vengono attuati molti progetti, tra cui «Riparto da me», iniziativa ideata da Fondazione Adecco, e le attività di inclusione dell’impresa sociale Bee4 (progetti che abbiamo raccontato in un precedente articolo). Importante è anche la scuola: le secondarie di primo e secondo grado hanno delle succursali all’interno degli istituti, mentre l’università deve compiere ancora passi avanti in questo senso. «Dal 2018 ci sono più di 40 atenei che garantiscono il diritto allo studio alle persone detenute», racconta la professoressa, «e, anche se si tratta di una realtà di nicchia – stiamo parlando di mille persone circa su 57mila – ci sono state anche delle grandi soddisfazioni, persone che si sono laureate con bei voti e sono state reinserite in società in maniera più che dignitosa».
L’arma più potente contro stereotipi e pregiudizi è la conoscenza, quindi l’apertura. Vianello, per esempio, porta decine di studenti all’interno delle carceri. «Bisognerebbe che le persone detenute ed ex detenute avessero più occasioni per raccontarsi nella loro totalità», dice. Secondo l’esperta, poi, il percorso di reinserimento dovrebbe iniziare prima del termine della pena, con un accompagnamento all’esterno che consenta di costruire una situazione dignitosa e una capacità di vivere all’esterno. «Così si aumenta anche la sicurezza, diminuendo le recidive», conclude la sociologa. «Sembra che il carcere abbia però un valore più simbolico che reale, pare che pochi siano interessati a dare un futuro a queste persone».