Non è chiaro perché ieri Giorgia Meloni abbia lasciato sul marciapiede i giornalisti, costringendoli a recuperare brandelli del suo intervento davanti all’assemblea nazionale di Fratelli d’Italia. È invece chiaro, da quello che è stato riferito, che la premier ha un’enorme preoccupazione, che camuffa con una sorta di «ai posteri l’ardua sentenza» sull’operato del suo governo: come se non si potesse essere giudicati per i primi dodici mesi di vita. Ma per le due grandi sfide in corso è possibile giudicare, dicendo la verità su manovra finanziaria e immigrazione.
Ora, è fin troppo facile addossare, come fa la premier, tutta la colpa della mancanza di risorse ai suoi predecessori, che avrebbero buttato i soldi dalla finestra nel tentativo di comprare il consenso dei cittadini. Come se all’improvviso la bacchetta magica sovranista e populista si fosse scaricata alla prova del governo. Non è altrettanto facile ammettere che la soluzione del blocco navale davanti alla costa della Libia era una panzana colossale che solo elettori allocchi potevano credere si potesse realizzare per fermare il fenomeno epocale dell’immigrazione. Oggi tuttavia meglio mettersi in posa da statista che guarda l’orizzonte e non la punta del naso.
E cosa penseranno quelli che hanno sperato nei risultati immediati e ora guardano all’ora di cena i telegiornali con le immagini dei barchini di ferro in coda all’ingresso del porto di Lampedusa che nemmeno nei momenti più affollati degli sbarchi? Se ne faranno dovranno fare una ragione, altrimenti votino alle europee per Giuseppe Conte o Elly Schlein, se hanno coraggio.
Questo sembra dire la premier allo stato maggiore di Fratelli d’Italia che si è riunito ad ascoltare una leader preoccupata ma «orgogliosa» delle cose fatte. Le sue parole è giusto riportale perché hanno un sapore forte a confronto con il passato e spiegano molto della sua metamorfosi: «Non mi spaventa pagare uno scotto nel breve periodo perché a me non interessano soluzioni effimere o risposte propagandistiche che funzionano sul piano della comunicazione che durano due mesi per poi tornare al punto di partenza. Voglio risolvere il problema in maniera strutturale. È un lavoro immane ci vorrà temo, ma alla fine avremo la meglio sui trafficanti».
Cavarsela con i tempi lunghi, meglio dire biblici – il Piano Mattei e le colpe di chi l’ha preceduta a Palazzo Chigi – dopo tutte le roboanti promesse elettorali: è un fantastico contorsionismo. Meloni ha pure fortuna che l’opposizione non ha il fegato e i cromosomi per mettersi sui moli a riprendere gli arrivi dei migranti di oggi e far vedere e sentire cosa dicevano i populisti nel 2015, nel 2016 e a seguire fino al governo Draghi. Non ha la possibilità di tirarsi fuori dalle colpe del Superbonus e dire che comunque sempre i soliti populisti sapevano che le risorse non ci sarebbero state ma hanno continuato a turlupinare i loro elettori con flat tax per tutti, la riforma Fornero nel cestino, le accise per la benzina abolite e tanti altri coriandoli tossici.
Certo, dopo un anno alla guida del governo, Meloni dice ai suoi colonnelli di essere la Giorgia di sempre, di avere camminato «a testa alta, la schiena dritta». E tutte le volte che è stata in grado di dire dei no lo ha fatto perché era giusto anche quando c’era da pagare un prezzo. Ma quello che le sorelle e i fratelli d’Italia hanno vissuto, il «fango» sulla sorella Arianna e sul passato di tutti loro, è niente rispetto a quello che arriverà nel 2024. Compresi «i tentativi di disarcionarci per due ragioni: la prima è che questa stagione si chiuderà con le europee, la seconda è che non ci accontentiamo di aver vinto le elezioni». È un’affermazione enigmatica: chi dovrebbe disarcionarla? Questa opposizione? E in che occasione? Le europee non sono le politiche. E allora a tendere un agguato può essere solo Matteo Salvini, se uscirà con le ossa rotte dalla prova delle europee e dovrà rimanere fuori dal nuovo potere di Bruxelles mentre la sua alleata Giorgia convola a nozze nella nuova maggioranza Ursula insieme ai socialisti.
Allora occhio alle europee, fa capire Meloni alle truppe, perché correre con il sistema proporzionale esalta l’identità politica ma «c’è un vincolo di coalizione che richiede responsabilità».
Forse la premier, in conclusione del suo discorso, non doveva citare Lucio Battisti («Non sarà un’avventura, è un fuoco che con il vento può morire»), ma Battiato. «Rimettiamoci la maglia i tempi stanno per cambiare».