La scena in cui Jerry Calà si siede su un water fiammeggiante è quasi certamente la più celebre del film di Marco Risi “Vado a vivere da solo”. Il film uscì nel dicembre del 1982: Italia campione del mondo in carica, al governo c’è il Pentapartito e ci rimarrà per un decennio, ci si prepara all’epoca della Milano da bere. Secondo una stima Istat, all’epoca gli uomini italiani, in media, lasciavano l’abitazione dei genitori poco dopo i ventotto anni, le donne poco dopo i ventisei.
Passano quarant’anni, la nazionale non si qualifica ai mondiali per due volte di fila, i governi si colorano e si alternano come contrade del Palio di Siena e le insegne luminose attorno a Piazza del Duomo sono state smontate già da un quarto di secolo. Gli italiani lasciano l’abitazione dei genitori sempre più tardi: nel 2022 la media era 30,9 per gli uomini e ventinove per le donne.
I dati e il ruolo del lavoro
La statistica fotografa un’Europa dove la differenza fra i numeri italiani e quelli della Svezia (il Paese con l’età media più bassa) è di quasi dieci anni. Gli altri paesi sul podio Ue sono la Finlandia (21,2) e la Danimarca (21,3). La Norvegia non aggiorna le statistiche dal 2009, quando i giovani norvegesi, in media, lasciavano la casa dei genitori a 19,3 anni.
Un’analoga indagine del 2019 mostra variazioni in senso opposto fra i primi tre Stati: la Svezia, nel periodo in questione, ha visto l’età media aumentare di 1,2 anni (quattro anni fa era addirittura inferiore alla maggiore età), in Danimarca è rimasta identica, mentre in Finlandia è calata da 21,8 a 21,2.
Se nella trama del film Jerry Calà chiede di andare via di casa, può permettersi di farlo solamente attraverso il contributo dei genitori ed è ragionevole immaginare che il discorso non sia cambiato più di tanto. Funziona così anche nel Nord Europa? I freddi numeri direbbero di no. D’altronde, è sufficiente fare una passeggiata in una capitale nordica d’estate per comprendere come l’età media, fra chi lavora a contatto con il pubblico, sia decisamente bassa.
L’equivalente norvegese dell’Istat dice che il sessantasette per cento dei norvegesi fra i quindici e i ventiquattro anni ha svolto un lavoro estivo durante il 2021. Fra i quindici e i diciannove anni la percentuale era del cinquantadue per cento. Valori molto simili anche fra gli svedesi nella fascia d’età che va dai sedici ai diciotto anni (dato del 2017), mentre la Confindustria danese stima al quaranta per cento la percentuale di giovani danesi con un lavoro estivo nel 2023 fra i tredici e i diciassette anni. Quattro studenti finlandesi su cinque lavorano durante le vacanze estive secondo un’indagine della tv di stato Yle del 2020.
La situazione, in Italia, è radicalmente opposta. L’Istat rilevava che nel 2021, indipendentemente dal periodo dell’anno, aveva lavorato solamente il 17,5 per cento dei giovani fra i quindici e i venticinque anni, in una statistica che include, quindi, anche chi ha interrotto gli studi per dedicarsi al lavoro. Nel 2004 la percentuale era del 27,3 per cento ed è scesa fino al 2014 quando si è toccato il minimo del 15,5 per cento. Da allora, i giovani con un lavoro di qualche sorta sono tornati a salire (con l’eccezione del 2020 causa Covid). Enormi le variazioni regionali: si va dal 27,9 per cento del Nord-Est al 13,2 per cento del Mezzogiorno.
Il secondo fattore: trovare casa
Dopo il lavoro, il secondo tassello che permette ai giovani di poter lasciare l’abitazione dei genitori è la disponibilità di un appartamento, e se è vero che per chi lavora a tempo pieno valgono le logiche del mercato al pari di ogni altro adulto, per chi studia la faccenda è più complicata.
Per le università nordiche, è comune mettere a disposizione propri appartamenti, oppure soluzioni abitative convenzionate con gli enti locali. Prendiamo in considerazione le prime tre università scandinave del QS University Ranking: l’Università di Copenhagen, con trentaseimila studenti e circa settemila nuove matricole ogni anno, si appoggia all’ente Studieboliger che dichiara di offrire l’accesso a oltre undicimila abitazioni nella capitale. Oltre a Studieboliger, esiste anche la Kkik che raccoglie una trentina di fondazioni sotto lo stesso tetto per circa seimilaseicento abitazioni.
Più piccola è la Aalto University di Espoo, cittadina confinante con Helsinki. I suoi dodicimila studenti si appoggiano alla Ayyy (l’associazione degli studenti dell’università) che gestisce abitazioni per circa un quarto degli iscritti all’ateneo, mentre l’ente abitativo Hoas dichiara diecimila appartamenti, che però sono destinati anche agli studenti di altre università della capitale.
Complicato il discorso per l’Istituto Reale di Tecnologia di Stoccolma (settantatreesimo posto, tredicimila iscritti). Si appoggia all’ente Sssb (Abitazioni Studentesche di Stoccolma), che al momento offre solo quarantotto abitazioni disponibili su 8.352 in tutta la città a fronte di migliaia di nuove matricole. Per un appartamento centrale (quarantanove metri quadri in centro, ottocento euro al mese), la persona in cima alla graduatoria è in attesa da millesettecento giorni, ma in media gli appartamenti richiedono un’attesa di circa un anno e si va dai trecento ai seicento euro mensili. Questo, però, rappresenta un caso limite legato alla profonda crisi abitativa che colpisce Stoccolma e le principali città svedesi.
Una caratteristica comune a queste tre università è la semplicità con cui si può fare richiesta per un’abitazione: la registrazione avviene online e gli strumenti sono piuttosto intuitivi. Fra i primi atenei italiani, solo il Politecnico di Milano ha a disposizione appartamenti propri (1.568 per quarantaseimila studenti) e un sistema di assegnazione online, mentre Bologna offre seicento borse di studio da mille euro l’anno per i fuorisede. Per il resto, l’ostacolo principale delle università italiane è il labirinto di bandi regionali e burocrazia attraverso i quali destreggiarsi.
Il terzo fattore: sostegno agli studi
L’ultima partita, forse quella fondamentale, è quella del sostegno agli studi. Le università del Nord Europa sono pubbliche e gratuite (per chi arriva dall’Ue), mentre quelle statali, in Italia, hanno rette variabili a seconda del reddito.
Attraverso siti dedicati, è possibile calcolare l’ammontare del sostegno offerto dallo Stato agli studenti.
Poniamo il caso di uno studente a tempo pieno, che desidera abitare in affitto, non lavora e non ha familiari a carico: in Danimarca riceverebbe 882 euro lordi al mese a fondo perduto; in Norvegia 4800 euro annui a fondo perduto e 7200 in prestito (senza interessi); in Svezia 306 euro a fondo perduto ogni quattro settimane e, qualora desiderasse il prestito, 700 euro con interessi allo 0,59 per cento; in Finlandia sono 270 euro al mese a fondo perduto e 650 di prestito.
In generale, i requisiti sono la cittadinanza o la residenza permanente, la partecipazione attiva agli studi e l’assenza di altre fonti di reddito. Anche qui, il sistema di richiesta è informatizzato, leggero e intuitivo.
A spiegare cosa favorisce la precocità degli svedesi nello spiccare presto il volo dal nido e quali problemi, invece, si possono presentare, ci pensa Viktorija Pesic, presidentessa delle Associazioni studentesche riunite di Stoccolma: «La Svezia ha una forte cultura individualista molto diversa dai Paesi del Sud Europa, io stessa provengo da una famiglia di origini balcaniche e ho notato la differenza. I numeri sono particolarmente bassi perché diversi giovani nelle aree rurali o nel nord, vanno via di casa addirittura per frequentare le scuole superiori, specie se l’indirizzo preferito non è disponibile nelle vicinanze».
Anche per questo, l’indipendenza inizia già durante gli anni della formazione: «Molti lavorano già durante gli anni delle superiori, ad esempio d’estate. Chi studia all’università cerca di pagarsi gli studi lavorando nei bar, oppure come baby-sitter». E le difficoltà maggiori? «La questione abitativa è molto pressante. Nelle grandi città, specie nella capitale, la popolazione studentesca è in gran parte composta da giovani nativi, questo perché perfino gli affitti di seconda mano sono carissimi. Secondo i nostri studi, molti giovani che non riescono a spostarsi dalla casa dei genitori, contribuiscono pagando l’affitto, mentre chi arriva da fuori spesso deve rinunciare perché non può trovare un’abitazione decente. E questo vale anche per gli studenti internazionali», chiude Pesic.
È facile comprendere anche l’entusiasmo di chi arriva dall’Italia. Stefano Natali, un neo papà trentaseienne ora residente a Stoccolma, è stato studente di robotica e per lungo tempo nel coordinamento per gli studenti Erasmus dell’Università di Örebro, nella Svezia centro-meridionale. Per lui, anche la qualità dell’educazione è stata una svolta dal punto di vista economico.
«Mi sono ritrovato a studiare lì dopo che l’Università di Roma 3 non mi aveva convalidato gli esami dati in Erasmus facendomi perdere quasi un anno intero. E così sono passato dal dover fare avanti e indietro in treno da casa a Roma e pagare a mie spese gli strumenti su cui lavorare, a un’università dotata di campus e laboratori gratuiti a disposizione». Hai avuto accesso al sostegno economico? «No, perché bisogna avere la cittadinanza, ma non pagavo la retta e la stanza al campus costava solo duemila corone al mese (circa duecento euro, ndr), alla fine mi conveniva economicamente».
E in una città più piccola rispetto alla capitale, la crisi abitativa non crea troppi grattacapo: «Gli studenti Erasmus che assistevo non avevano difficoltà dal punto di vista economico. Al massimo, se la borsa di studio era troppo ristretta, dovevano fare qualche sacrificio sulle uscite o sulla spesa settimanale, ma la grande differenza sta nel fatto che, a Örebro l’università ha direttamente in gestione una serie di appartamenti in accordo con l’ente cittadino e può distribuirli fra gli studenti, mentre a Stoccolma i prezzi sono molto gonfiati».