Senza girarci troppo attorno, la decisione della Fifa di organizzare un Mondiale in tre continenti è un affronto alle raccomandazioni della comunità scientifica internazionale, nonché la conferma di quanto il mondo dello sport – non solo il calcio – risulti spesso avulso dalla realtà. La competizione avrà luogo nel 2030, quando la linea degli 1,5 gradi di riscaldamento globale risulterà già spezzata, e la Terra galopperà verso quei due gradi che non può permettersi di superare. Si tratterà, inoltre, di un anno chiave per certificare i percorsi di Stati e aziende verso la neutralità carbonica. Basti pensare all’Unione europea, che ha sette anni di tempo per ridurre le sue emissioni nette del cinquantacinque per cento (rispetto ai livelli del 1990).
Il 2030 sarà quindi la tappa intermedia di un viaggio che, nelle migliori delle ipotesi, si concluderà con l’adozione di un sistema produttivo diverso, più sobrio, non basato sull’iperproduzione e il consumismo sfrenato, in cui tutte le (poche) emissioni prodotte dovranno essere compensate con l’aiuto della natura e della tecnologia.
Proprio in quell’anno, la centesima edizione della Coppa del Mondo di calcio farà tappa in Sud America (Uruguay, Paraguay, Argentina), Africa (Marocco) ed Europa (Portogallo e Spagna). L’impatto ambientale e climatico di un Mondiale spalmato in tutte queste zone del mondo è in totale controtendenza rispetto agli obiettivi verdi della Fifa, sotto accusa da anni per greenwashing selvaggio. Con toni trionfalistici, il presidente della federazione, Gianni Infantino, ha detto che la celebrazione avrà «un’impronta globale unica». Ma tra voli a lungo raggio e grandi opere che incideranno sull’ecosistema di sei Paesi, l’unica «impronta globale» del Mondiale 2030 sarà quella carbonica.
La comunità scientifica internazionale è concorde sul senso d’urgenza necessario per la mitigazione e l’adattamento al cambiamento climatico: non abbiamo il margine per temporeggiare e flirtare con la gradualità. Le emissioni di gas serra, che a livello globale continuano a crescere, vanno ridotte in modo rapido, drastico e uniforme, nel rispetto delle comunità locali e cercando di proteggere (e risarcire) le economie meno sviluppate. Se oggi stiamo ancora trovando la formula giusta per una sostenibilità a trecentosessanta gradi, nel 2030 non avremo più scuse. In quell’anno, però, una delle più importanti competizioni sportive toccherà tre continenti, nascondendosi dietro la volontà di creare connessioni e unioni tra culture diverse.
Secondo le Nazioni unite, la Coppa del Mondo del 2018 in Russia ha causato la generazione di 2,16 milioni di tonnellate di gas serra: un impatto climatico simile a quello di 465mila automobili nell’arco di un intero anno. Il Mondiale è un evento complesso, che richiede sforzi e consumi extra da tante angolazioni. Dalla costruzione delle strutture (al di là degli stadi) ai viaggi compiuti da giocatori, allenatori, addetti ai lavori e tifosi, passando per l’energia elettrica, il cibo cucinato e consumato (spesso sprecato), la produzione e il trasporto del merchandising, gli impianti di raffrescamento e riscaldamento. Moltiplicate tutto questo per sei (Paesi) e avrete il centenario della Fifa World Cup.
Nel 2017, l’università dell’Essex ha calcolato le emissioni di gas serra dei trasporti da e verso gli stadi inglesi in cui si giocano le partite: la stima è di 56.237 tonnellate di CO2 equivalente. Più importante è la gara, più la sua impronta di carbonio sarà consistente, perché i tifosi sono disposti a fare viaggi più lunghi per godersi un match decisivo tra due squadre di alta classifica. I Mondiali si giocano ogni quattro anni, ma lo sport non si ferma mai. Basti pensare all’Nba, in cui – tra precampionato, stagione regolare e playoff – ogni squadra può disputare più di cento partite nell’arco di un’annata sportiva.
Sono purtroppo rari i casi come quello dei Forest Green Rovers, la prima squadra di calcio carbon neutral secondo le Nazioni unite. Il club – oltre a servire solo cibo vegano prima delle partite – sta innalzando un nuovo stadio fatto completamente di legno (progettato da Zaha Hadid), costruirà abitazioni a basso costo nell’area che ospitava la vecchia struttura (sarà demolita) e implementerà un sistema avanzato per non sprecare neanche una goccia d’acqua piovana e un filo d’erba tagliata.
Al di là degli esempi virtuosi ma isolati, c’è bisogno di un cambio di paradigma radicale, e il primo livello su cui intervenire sono proprio le competizioni come i Mondiali e gli Europei, che non si giocano tutti gli anni e possono essere organizzate con maggior flessibilità rispetto a un campionato nazionale.
La sensazione, molto simile a una certezza, è che i vertici dello sport non stiano lavorando abbastanza per sposare questa nuova – e necessaria – visione del mondo. E no, la soluzione non può essere la «prima Coppa del Mondo a zero emissioni»: ci riferiamo all’etichetta appiccicata dalla Fifa sui Mondiali in Qatar, per sempre macchiati dal sangue dei lavoratori morti per realizzare le strutture sportive.
Quella del 2022 è stata una competizione in cui tutto, perfino i semi dell’erba per i campi da calcio, è arrivato a bordo di aerei provenienti da Paesi lontani. Per dare vita a una Coppa del Mondo nel deserto, a Doha e dintorni sono stati costruiti sette nuovi stadi. Ogni impianto, secondo le stime, ha avuto bisogno di diecimila litri d’acqua desalinizzata al giorno. Una pratica, quella della desalinizzazione, che necessita di enormi quantità di elettricità. E il Qatar, il paradiso degli investimenti fossili, non è esattamente un’eccellenza delle energie rinnovabili.
Quella della «prima Coppa del Mondo a zero emissioni» è stata una favola priva di concretezza. Esattamente come i target climatici annunciati dalla Fifa, che vuole tagliare le emissioni del cinquanta per cento entro il 2030 e raggiungere il net zero entro il 2040: «Dopo la mia elezione a presidente nel 2016, la Fifa è diventata la prima organizzazione internazionale ad aderire alla campagna Climate neutral now dell’Unfccc, impegnandosi a misurare, ridurre e compensare le emissioni di gas serra associate alle Coppe del Mondo», ha detto Infantino in occasione della Cop26, due anni prima di annunciare un Mondiale su tre continenti.
Il calcio è lo sport più popolare al mondo, caratterizzato da un valore di mercato pari a 1,8 trilioni di dollari (2019). Riformare il suo approccio alla crisi climatica significa cambiare la mentalità di migliaia, milioni di persone. Non è solo un gioco, perché ha una capacità forse unica di incidere socialmente e culturalmente. E il giocatore, come sostiene con fermezza LeBron James, è «more than an athlete». Più di un atleta.
Di fronte alla negligenza dei dirigenti in giacca e cravatta, ora i veri protagonisti dello sport sono chiamati ad alzare la voce una volta per tutte. In Nba è successo con il tema del razzismo, e ha funzionato. L’emergenza climatica, però, è ancora un argomento inesistente nelle sale stampa degli stadi e sui campi da gioco.
Qualcosa si sta muovendo nello sci: i migliori atleti del mondo hanno inviato una lettera aperta alla Fis (Federazione internazionale sci e snowboard) per protestare contro la sua «carente» strategia sulla sostenibilità. Anche qui, il problema principale è un calendario geograficamente irragionevole, fatto di voli continui tra Europa e Nord America. La speranza è che il senso d’urgenza di tutti gli atleti diventi lo stesso degli sciatori, che tra pochi anni rischiano di non poter più praticare il loro sport.