Sento spesso dagli ucraini che per qualche impegno si trovano all’estero di voler tornare a casa prima possibile. Anche per me viaggiare all’estero è diventato quasi insopportabile. Io amo viaggiare, essere in movimento, partecipare agli eventi e fare nuove conoscenze, ma l’immersione in una vita diversa, pacifica e spensierata, quando soltanto a poche migliaia di chilometri la gente ogni giorno dà la vita per la propria libertà, crea un tale contrasto con la realtà quotidiana ucraina che vorrei scappare via, vorrei subito tornare indietro nella nostra non-normalità, nella nostra (maggiore o minore) non-sicurezza.
Quando vado all’estero mi sembra di portare con me ogni volta un po’ di morte in valigia. La posso raccontare, la posso persino mostrare, a seconda dell’interesse e dell’empatia di miei interlocutori. A volte cerco intuitivamente di tastare quel limite, oltre il quale la morte, ovviamente altrui, diventa troppo per i miei interlocutori. Il limite è quando i miei racconti provocano il desiderio di distanziarsi piuttosto che aiutare.
In Sicilia, durante il Festival di geopolitica, ho pianto quando ho letto la notizia dell’attacco russo a Kharkiv e della morte che ha colto un bambino nel sonno, ma mi sono subito asciugata le lacrime: ho bisogno di solidarietà, ma non di pietà. Immagino che anche per altri colleghi che parlano della guerra a un pubblico internazionale sia un’esperienza di ricerca di un costante equilibrio tra emotività e apparente adeguatezza, tra esperienza del dolore e del lutto e aspetto professionale.
Anche a casa facciamo molte conversazioni sulla morte. Un mio amico mi dice che ha paura di non fare in tempo tutto quello che vorrebbe fare. Una mia amica ha cominciato il suo post su Facebook in occasione del suo anniversario con le parole: «Ho trent’anni. Ci sono arrivata, è bene così». Conversando con un’altra amica, condivido la consapevolezza che forse non moriremo vecchi. «È meglio così che guardare come muoiono tutti gli altri», risponde lei.
Questo non vuol dire accettare l’inevitabilità della nostra morte imminente, assolutamente no. Vuol dire riconoscere la verità: finché c’è la guerra, ognuno e ognuna di noi ha a disposizione una quantità di tempo incerta. In linea di principio, questa verità vale per tutti, ma in tempi di guerra è particolarmente sentita.
Questo significa che voglio che i nostri colleghi e partner occidentali si sentano allo stesso modo per capire cosa stanno passando gli ucraini? Assolutamente no. Sono condizioni di vita anormali. Sono sentimenti anormali. Vorrei però che si rendessero conto della loro capacità di agire, che si rendessero conto di quanto la vittoria dell’Ucraina e la difesa della democrazia nei loro Paesi e nel mondo dipendano dalle azioni di ciascuno di loro.
È paradossale, ma in una certa misura il sentimento di «non poter cambiare nulla» è tanto comune per alcuni cittadini delle democrazie occidentali quanto all’homo postsovieticus, l’uomo post sovietico, che è stato educato ad aver paura della propria iniziativa come della morte, e non in senso metaforico, purtroppo. Per smuoverli, sono pronta ad aprire la mia valigia tutte le volte che sarà necessario farlo, e raccontare, mostrare, spiegare. Ovviamente, non solo della morte. Ma anche della morte. Bisogna farlo per diminuire la presenza di morte in Ucraina.
Sono felice che a breve io e la mia valigia saremo semplicemente a casa, tra la nostra gente. E non ci sarà più bisogno di spiegare niente a nessuno.
(Tradotto da Kateryna Mychka)