Il nuovo disco di Sufjan Stevens è di una bellezza straziante, non solo perché si intitola “Javelin”, giavellotto, come quei favolosi razzi portatili americani che hanno salvato i ragazzi ucraini dall’aggressione russa, ma soprattutto per il senso delle dieci canzoni.
Non è la prima volta che il mondo dei cantautori indie americani si ispira al giavellotto, o al missile, per raccontare una storia d’amore. Dieci anni fa c’è stato Bill Callahan con “Javelin unlanding”, ora è Sufjan Stevens a utilizzare il javelin per esprimere ad alta voce un pensiero indicibile di cui vergognarsi, quello improvviso e disonorevole di voler male al partner.
Ho cercato nella neve il giavellotto, ma non ho mai voluto davvero lanciartelo addosso, canta Sufjan, altrimenti, se ti avessi centrato, ci sarebbe sangue al tuo posto. Sufjan ne è consapevole ma ci pensa e ci ripensa, «ed è un pensiero terribile da avere, e da continuare a tenere». L’incomunicabilità di coppia, di una coppia che si ama, è il tema di questo disco che musicalmente è una via di mezzo tra il Sufjan Stevens folk di “Carrie & Lowell” e quello più orchestrale di “Illinoise”.
“Shit talk”, la canzone più lunga e probabilmente anche più bella dell’album, è una supplica a non litigare più, a non insultarsi più, nonostante la seconda occasione di riallacciare la relazione romantica sia finita male. Resta, però, un «I will always love you» ripetuto all’infinito, assieme a una richiesta di tenersi sempre più vicini e stretti per timore di non farcela («hold me closely, hold me tightly, lest I fall»), proprio perché «I don’t wanna fight at all», non voglio proprio litigare, e, appunto, «I will always love you», ti amerò per sempre.
Insomma, “Shit Talk” è l’ennesimo capolavoro di Sufjan Stevens, impreziosito dalla chitarra di uno dei due gemelli Dessner, Bryce, capace di far scivolare un gran pezzo di Sufjan Stevens dentro un gran pezzo dei National.
“Shit talk” è il penultimo brano del disco, seguito da una cover di “There’s a world”, l’unico pezzo dimenticabile di “Harvest” di Neil Young che Sufjan Stevens, cinquant’anni dopo, fa rinascere con il banjo in un instant classic contemporaneo.
Questa rubrica ha un debole ormai ventennale per Stevens e per la sua fantasiosa capacità di creare melodie celestiali, di ripassarle in una centrifuga musicale che le avvolge in una confezione orchestrale alla Sgt. Pepper ma in versione mistica.
“Javelin” arriva in un momento tragico per il cantautore del Michigan nato nel 1975. Il disco, uscito in ottobre, è dedicato al compagno e amore della sua vita, scomparso ad aprile (annunciando il disco e la dedica, Stevens ha fatto coming out), e poco prima dell’uscita dell’album a Stevens è stata diagnosticata la sindrome di Guillan-Barré, una grave malattia neurologica che gli ha provocato una paralisi progressiva agli arti e il ricovero urgente in ospedale.
Stevens adesso non è più in pericolo di vita e ha intrapreso un lungo e faticoso percorso di riabilitazione, su cui aggiorna i fan via Instagram, ma prima di riprendere a camminare e di tornare autosufficiente serviranno mesi, forse più di un anno.
“Javelin” contiene tutta questa moltitudine, fin dalla prima canzone, “Goodbye Evergreen”, «lo sai che ti amo, ma tutto quello che è un dono del cielo, sappiamo che alla fine si spegne», continuando con “Will anybody ever love me?” («guardami andare alla deriva, guardami lottare, perché voglio proprio sapere se qualcuno mi amerà mai più») e con “So you are tired?” («quindi sei stanco di noi, sei stanco dei miei baci?, è per qualcosa che ho detto o è uno scherzo?»).