Gli ingredienti sono pochi, basici, sempre gli stessi: farina di ceci, acqua, sale, olio di oliva. Una formula che, variamente declinata, è alla base di una serie di piatti regionali tanto “poveri” quanto piacevoli. A partire dalla farinata. Cotta nel forno a legna, sottile, profumata e croccante, a volte decorata da qualche ago di rosmarino, si trova dal basso Piemonte, in Monferrato e dintorni, dove è nota come belecauda o bellecalda, fino a Genova ed entroterra ligure dove si chiama fainà. Con un centro d’eccellenza a metà strada, a Ovada, che ha diversi ristoranti dedicati e un locale storico, Da Vittorio, amato da appassionati di entrambe le regioni.
La sua storia, o meglio, la sua leggenda, risale al periodo delle Repubbliche Marinare, e narra che sia nata per caso nel 1284, quando Genova sconfisse Pisa nella battaglia della Meloria. Al ritorno dalla battaglia, le navi genovesi incapparono in una tempesta e dei barili d’olio e farina di ceci si rovesciarono, inzuppandosi d’acqua di mare. Il miscuglio fu ovviamente e parsimoniosamente recuperato e servito ai marinai che, nel tentativo di renderlo meno sgradevole, lo misero ad asciugare al sole fino a ottenere una sorta di frittella. Perfezionata la tecnica, ne fecero un piatto tipico che ribattezzarono, per scherno, “l’oro di Pisa”. A riprova, la più antica notizia scritta sulla farinata è un decreto della Repubblica di Genova risalente al 1447, in cui si vieta, per prepararla, l’uso di olio di scarsa qualità.
La storia vera, però, dice che siano stati i commerci delle Repubbliche Marinare di Pisa e Genova a importare in Italia dall’Oriente, nel Medioevo, l’abitudine all’impiego dei ceci come alimento sano, calorico, versatile ed economico, e che da lì arrivi la farinata. Come dimostra la cecina, o torta di ceci, che in Toscana viene anche chiamata semplicemente “torta” a Livorno, o “calda calda” a Carrara, e che è esattamente la stessa cosa e che, come la farinata, si presta a gustosi connubi con verdure o formaggio.
«Pane e panelle fanno le figlie belle», dice all’incirca un vecchio adagio. A Palermo, insieme agli spitini, alle arancine (arancini, nella Sicilia orientale), alle ravazzate, al pane ca’ meusa e ad altre specialità, sono un tipico e gustoso cibo di strada. Sono frittelline sottili di farina di ceci da mangiare calde e condite con sale e limone, servite dentro a un panino, a volte insieme alle crocché, le crocchette di patate.
Si trovano nei chioschi, nei mercati, o in storiche e caratteristiche friggitorie del centro come la Gastronomia Testaverde, e nascono da una tradizione di cibo povero. Nell’Ottocento, secondo lo studioso di tradizioni popolari siciliane Giuseppe Pitrè, erano chiamate piscipanelli (pesce a panella) perché venivano preparate con una forma ovale che ricordava quella dei pesci e cotte nel loro olio di frittura. Piccoli espedienti per dare ai palermitani della classe popolare l’illusione di mangiare pesce fritto, un cibo da ricchi che non si potevano permettere.
Dalla Sicilia si torna direttamente a Genova con la panissa, sempre con gli stessi ingredienti di base, che viene preparata all’incirca allo stesso modo e che differisce dalla farinata perché cucinata come una polenta e poi lasciata rassodare. Si può sia friggere a listarelle sia tagliare a cubetti e accompagnare con cipolla, alici fritte o usare per farcire la focaccia. Sue strette parenti sono in Francia la panisse, popolare a Marsiglia, e la socca, tipica di Nizza. La ricetta è arrivata fino al Marocco
Anche in Sardegna si può mangiare la farinata. Che sia la fainè sassarese, introdotta in città agli inizi del Novecento quando gli imprenditori genovesi Baciccia e Ottonello vi aprirono dei forni e oggi diffusa in quasi ogni pizzeria di Sassari, o la fainò di Carloforte, l’enclave dell’isola di San Pietro che conserva lingua e cultura dei fondatori, le famiglie di pescatori originarie di Pegli e provenienti dall’isola tunisina di Tabarka, dove risiedevano dal sedicesimo secolo e che nel 1738 ottennero dal re Carlo Emanuele III di Savoia il permesso di colonizzare l’isola. E dove anche oggi si vende nei caratteristici tascélli: “Oh, fenà fe, coda ch’a be!” (la farinata calda, che bella!) si poteva sentir gridare per strada, come racconta Sergio Rossi ne “La Cucina dei Tabarchini – Storie di cibo mediterraneo fra Genova, l’Africa e la Sardegna”.
A Ferrara, sono popolari i ceci ferraresi, in pratica una farinata, da abbinare a rosmarino, cipolla, salumi o salsiccia.
E infine, c’è la calentita di Gibilterra, avamposto per l’America latina dove la farinata e le sue varianti sono la memoria storica di generazioni di antichi immigrati che in Argentina e in Uruguay il 27 agosto celebrano la “giornata della fainà”.
Ma dove si trova la farina di ceci? In genere al supermercato, ma non sempre e non ovunque, quindi meglio considerare la possibilità di farla in casa, anche perché è molto semplice. Bisogna tostare i ceci in forno per quindici minuti a centocinquanta gradi, poi macinarli nel robot da cucina e frullarli fino a ottenere una farina.