Zero in condottaPolitica e magistratura alimentano il bipopulismo italiano

Il governo Meloni annuncia complotti dei giudici e pagelle di valutazione, mentre l’Anm lancia l’ennesimo allarme democratico contro l’indipendenza delle toghe. Lo stesso scontro tra opposti estremismi impedisce da decenni qualsivoglia tentativo di riformare il sistema giudiziario

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Come nei momenti meno limpidi della vita politica, si ripropone la questione giustizia che impiega un secondo a diventare scontro tra politica e magistratura. Finora era parso che il copyright della battaglia anti-giudici fosse appannaggio di Matteo Salvini, tuttora imputato a Catania, ma con l’esplosione del caso-Crosetto è diventato palese ciò che era rimasto sottotraccia e cioè che a riaccendere la polemica con «una parte della magistratura» (così diceva anche Silvio Berlusconi) è direttamente Palazzo Chigi, cioè Giorgia Meloni. Bisogna chiedersi perché la presidente del Consiglio, già alle prese con notevoli questioni come l’economia e un disagio sociale che cresce, abbia deciso di aprire un nuovo fronte: tanto non funziona l’idea che la gente venga distratta da questi cambi di scena, questa è un’illusione, al più giornalistica e di ceto politico. 

Messo da parte un progetto organico di riforma dell’ordine giudiziario con l’emarginazione di Carlo Nordio, s’avanza adesso il progetto adombrato da Alfredo Mantovano, cioè da Giorgia Meloni, di dare comunque un segnale ai magistrati con le famose pagelle per misurarne il grado di produttività e anche di serietà. I test psico-attitudinali erano troppo, meglio le pagelle. 

In sé, non parrebbe una misura punitiva. Semmai è il contesto maleodorante di accuse velate, poi mezzo ritrattate, poi di nuovo confermate, di marca crosettiana a ingarbugliare il tutto e a fornire al giacobinismo conservatore dell’Associazione nazionale magistrati armi dialettiche per lanciare l’ennesimo allarme democratico contro l’indipendenza della magistratura. 

Dice Enrico Borghi, di Italia Viva: «Ogni parte si costruisce il proprio alibi per non cambiare proprio nulla, e per lasciare inalterato un meccanismo rotto che però produce rendite di posizione (sia in politica sia nella magistratura) in un gioco di potere dove evaporano i diritti del cittadino a una giustizia giusta».

Siamo dunque ritornati esattamente allo stesso punto di quarant’anni fa, cioè alla tenaglia tra quello che all’epoca era il berlusconismo marciante e il manettarismo del palazzo di giustizia di Milano: il che, da decenni, impedisce qualsivoglia tentativo di riformare il sistema giudiziario, che Dio solo sa se ha bisogno di interventi strutturali nell’interesse dei cittadini e della stessa democrazia. 

Lo scontro di civiltà che si rinnova porta alla radicalizzazione delle posizioni: con le sue modalità crosettian-mantovaniane il Governo aizza le resistenze corporative delle toghe – rosse o di altro colore è lo stesso – e forse anche risposte a suon di carte bollate verso esponenti della maggioranza. Sotto queste forche caudine di opposti interessi, a rimetterci è la fiducia nella giustizia da parte di chi è costretto ad assistere ancora una volta a una lotta nel fango piuttosto che a una fattiva collaborazione tra istituzioni dello Stato.

Dice Sabino Cassese nel recentissimo libro-intervista con Alessandra Sardoni “Le strutture del potere” (Laterza): «La fiducia dei cittadini nei giudici era al sessantotto per cento nel 2010. È passata al trentanove per cento nel 2021. L’ordine giudiziario non risponde alla domanda sociale di giustizia, non è in sintonia con il Paese. È diventato uno Stato nello Stato».

Sono parole definitive. Bisognerà vedere se il primo Stato riuscirà a far rientrare il secondo Stato. Con questi chiari di luna, tra gli opposti estremismi di Fratelli d’Italia e Associazione Nazionale Magistrati, c’è poco da essere ottimisti.

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