Dal quell’orribile sabato mattina in cui i miliziani di Hamas hanno attaccato Israele, l’antisemitismo strisciante si è rialzato e ha iniziato a essere gridato, scritto, brandito senza vergogna. Nelle più prestigiose università degli Stati Uniti che formano la classe dirigente dei prossimi anni, quelle dove ti indebiti per studiare se papà non può pagarti più di centomila dollari l’anno di master, gli studenti in nome della “causa palestinese” strappano i manifesti affissi con il volto degli ostaggi israeliani rapiti il 7 ottobre.
E per questa “causa”, così equivocata, si vandalizzano abitazioni dove risiedono ebrei e si fa scempio della memoria che oggi, non sembra appartenere più a tutti. I difensori della causa palestinese si scagliano contro Israele sulla base di un’idea arretrata che attribuisce al potere e al potente la colpa di ogni male. Israele diventa dunque colpevole quanto l’Occidente di ogni oppressione, di ogni sofferenza patita in Palestina e nel mondo.
La filosofa Judith Butler, docente a Berkeley e teorica del femminismo queer, del sesso come costrutto sociale, è intervenuta recentemente sui massacri perpetrati da Hamas e sulla guerra che ne è scaturita definendo «Hamas e Hezbollah movimenti sociali progressisti che appartengono alla sinistra globale». In un lungo articolo ha poi tentato di contestualizzare la storia del conflitto Israelo-Palestinese, innaffiando tutto con la retorica del pacifismo mondialista.
Dinnanzi a affermazioni simili si resta atterriti. Perché il pensiero dell’Occidente sembra essersi piegato al funzionamento binario di un algoritmo. I connettori che formano il pensiero umano sembrano bruciati per rispondere al solo funzionamento di un grande social network dove la verità non conta, la realtà e i fatti non hanno valore, conta solo ciò a cui si vuole credere. E così si ritagliano pezzi di verità, che si estrapolano, si equivocano per piegarli alla nostra convinzione e poi si incollano ad altri pezzi per creare un grande patchwork che risponde all’identità che ci attribuiamo, ma non alla necessità di dare senso alle cose, di capire la storia, di nutrire il dubbio.
Il risultato è un’opinione pubblica debolissima, senza riferimenti e disarticolata, dove le persone Lgbtq si fanno difensori di Hamas e si crede con ingenuità o calcolo che il massacro del 7 ottobre sia stata una reazione palestinese all’oppressione di Israele invece che un’operazione per continuare a opprimere i palestinesi in uno scacchiere più ampio, che coinvolge tutto il Medio Oriente e non solo.
Kamel Daoud, giornalista e scrittore algerino, nei suoi editoriali fa notare come l’islamizzazione della causa palestinese sia un elemento che sembra essere transitato dall’opinione pubblica araba a quello occidentale, in particolare progressista, «che cade nella trappola di trasformare questa causa nella miseria nascosta dei fallimenti indigeni dei paesi arabi». La nostra opinione pubblica si piega all’idea secondo cui liberare la Palestina significa giudicare l’Occidente aspettandosi da esso ciò che il mondo arabo non pretende da sé stesso.
Il potere e i potenti sono da condannare a prescindere, e allora si trova giustificazione alla barbarie, contestualizzata in uno di quei ritagli di verità fatti di tante omissioni, e si giustifica quello che si vuole giustificare, sacrificando il valore della libertà su cui abbiamo fondato la nostra civiltà.
In questo pensiero perverso emerge in Occidente un odio di sé fortissimo e diffuso, «che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico; l’Occidente tenta sì, in maniera lodevole, di aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più sé stesso; della sua storia vede oramai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo», ammoniva il cardinale Ratzinger in una lectio magistralis prima di diventare Papa.
La fragilità di questa opinione pubblica la rende del tutto irrilevante a condizionare il potere contro cui si scaglia. L’operazione militare lanciata da Israele e le conseguenze sui civili sono motivo di preoccupazione anche per l’amministrazione americana, e gli Stati Uniti, sono oggi la voce più forte e autorevole, capace di mediare e moderare la tensione altissima in Medio Oriente per contenere una risposta sproporzionata di Israele e l’estendersi del conflitto. Sono gli unici adulti nella stanza che di certo non possono contare né in patria né dall’altra parte dell’Atlantico su un’opinione pubblica capace di sostenerli.