Amo il mio lavoro «Sappi che c’è da correre però»

L’esperienza vissuta in prima persona da un professionista del servizio presenta una realtà ancora molto complicata dal punto di vista dell’occupazione. Eppure l’amore per questo mestiere è più forte dello sconforto ed è la spinta che incoraggia a cercare, ancora una volta, una via sostenibile

Foto di Rock’n Roll Monkey su Unsplash

E io lì non me la son sentita più di trattenermi, di sorridere, di essere sobrio, di abbozzare e non raccontare. Era l’ennesimo commento fuori luogo, l’ennesima dimostrazione di saccenteria, l’ennesima risposta alla domanda «perché nessuno vuole più lavorare in ristorazione?».

Sono rientrato alcuni mesi fa in Italia, dopo poco più di dieci anni fra diversi Paesi europei, conseguendo due lauree accademiche, un master in Sommelierie con insegnanti due dei migliori sommelier del mondo degli ultimi quindici anni, lavorando in ristoranti fra i migliori d’Europa, con cantine con cui solo alcuni grandissimi locali in Italia possono competere. Clienti che arrivavano fino alla tua città solo per bere e mangiare dove lavoravi, dalla Cina, dal Giappone, dal Canada, dall’Irlanda. Io ho avuto non solo la fortuna di lavorarci, ma anche di dirigerne alcuni, di essere responsabile della magia che ogni sera animava le sedie, i tavoli e le padelle, rendendo tutto armonioso, esteticamente bello e a volte addirittura quasi perfetto, anche se perfetto non lo era veramente mai.

Per amore sia nei confronti della mia donna sia verso me stesso ho detto basta. Basta star lontani da casa, basta non vedere i propri amici se non una volta l’anno, basta non sentirsi mai a casa nonostante l’accento che non esisteva più parlando la lingua straniera, basta avere nostalgia. E son tornato. Con un bagaglio d’esperienza che nella mia regione del Nord-Est italiano forse veramente pochi vantano alla mia età, avendo visto e provato a lavorare in contesti della più alta eccellenza mondiale in termini di qualità, pregio e organizzazione.

Io ho voglia di tornare a lavorare in ristorazione, una voglia enorme. L’adrenalina che si prova durante il servizio è una delle godurie più emozionanti che conosca, ma ho scoperto che non basta a soprassedere a tutte le altre problematiche.

Non capivo se durante i primi colloqui che ho sostenuto, armato di curriculum vitae, lettere di referenze splendide e presentazione pulita, ordinata, motivazionale, sbagliassi io in qualcosa. Chiedevo semplicemente un lavoro come cameriere, caposala, sommelier di sala – nessuna pretesa, umilmente, mi bastava avere un contratto full-time e riuscire a pagarmi l’affitto e le spese.

Un ristorante storico del capoluogo della mia regione mi ha fatto un colloquio di dieci minuti buttando un occhio distratto al mio curriculum e invitandomi, nonostante lo spiacevolmente incredibile fatto – a detta loro – che non avessi mai lavorato in Italia, a iniziare a lavorare «tipo una ventina di ore a settimana per vedere come va» e poi dopo un tre-quattro settimane avremmo potuto parlare di stipendio e di un’eventuale assunzione part-time.

Una champagneria e wine bar di vini naturali, entusiasta del mio percorso e della mia persona, dopo due colloqui mi ha offerto 7,50 euro netti all’ora. Setteeuroecinquanta l’ora a stappare bottiglie da cinquanta, cento, duecento euro l’una e magari pure descriverle, decantarle, e renderle ancora più appetitose ai diversi avventori.

Uno degli apici di questo mio percorso di re-inserimento nel mondo della ristorazione italiana? Un ristorante con due stelle Michelin nella piazza principale della città – due stelle guadagnate in tempo lampo, in una delle piazze più belle d’Itala. Primo colloquio da due ore e mezza per conoscermi, doppio turno di prova a pranzo e a cena eseguito elegantemente, colloquio di assunzione durato tre ore, nemmeno dovessi diventare il nuovo capo di Confindustria.

L’offerta in breve mi ha lasciato a bocca aperta: «affidarmi in toto il discorso vini» (quindi ruolo da capo-sommelier? Semplice sommelier? Responsabile?), lavorando dal martedì alla domenica pranzo e cena (orario circa 11.00-17.00 / 18.00-01.00) con il lunedì libero «però da dedicare al riordino della cantina, ordine vini e formazione». 78 ore di servizio a settimana più qualche ora il lunedì. Stipendio? 1.550 euro netti al mese senza straordinari pagati. Siamo intorno ai cinque euro netti l’ora. Per sacrificare completamente la propria vita a un progetto, un lavoro che non mi avrebbe lasciato lo spazio, il tempo o le energie per dedicarmi a null’altro, men che meno a me stesso o alla mia famiglia.

Per fortuna non accettai – quando rinnovarono il ristorante, mi raccontarono addirittura che fecero fare ai camerieri in cassa integrazione turni da 18-20 ore a trasportare mobili e scatoloni da un edificio all’altro: «O così, o abbiamo la fila fuori dalla porta di gente che ha voglia di lavorare».

Un altro bi-stellato di una città a sessanta chilometri da casa, all’offerta economica, dopo tre colloqui, non ci è mai arrivato. «Non è importante, puntiamo alla terza stella e con noi avresti la possibilità di crescere». Lavoro dal mercoledì alla domenica pranzo e cena con orario spezzato, il lunedì e il martedì dedicati rispettivamente a corsi di formazione e aggiornamento in campo gastronomico e vitivinicolo. «La formazione è gratis». Che fortuna, pensa se me la fossi dovuta pagare.

Dove mandavo il curriculum mi chiamavano. Ho fatto in tre mesi ventiquattro colloqui di lavoro e ho ricevuto ventiquattro offerte di lavoro. Anche se alcune, a chiamarle offerte, viene da ridere.

In provincia di Bergamo non mi è andata meglio. Lì son stato assunto per un ristorante che puntava alla benedetta stella Michelin, e la mia esperienza avrebbe potuto aiutare a intraprendere la via. Feci un piano ponderato, avvisai la proprietà che ci sarebbe stato da sudare e spendere per rimettere a posto le cose, e investire con un ritorno possibile in tre o cinque anni. Ci mettemmo d’accordo su uno stipendio, che scoprii poi essere per metà liquidata come “rimborso spese” perché «sai, le tasse, in Italia».

I ritmi erano folli, lavoravo sette giorni su sette, pranzo e cena per abbattere le spese del personale, gli straordinari non venivano mai conteggiati e la proprietà non ha mantenuto nemmeno una delle promesse che mi aveva fatto in fase di assunzione. Un periodo addirittura, per risparmiare sul receptionist notturno, le chiamate venivano deviate al mio telefono. Assunto come Restaurant Manager e Sommelier, finito a rispondere al telefono della reception alle quattro del mattino di un lunedì. I gruppi su WhatsApp squillavano a tutte le ore del giorno e della notte, e la reperibilità erano dovute pena gli insulti e le tremende arrabbiature della proprietaria, che per ore poteva riempirti di insulti e critiche.

Foto di Siyan Ren su Unsplash

Per fortuna avevo un contratto di sei mesi, e quando ho avvisato la proprietà della mia mancanza di volontà di rinnovare il contratto a un mese dalla scadenza dello stesso, non solo è stato smesso di retribuirmi il “rimborso spese”, quindi metà dello stipendio, ma mi furono cancellate tutte le ferie nonché, magia degna di Houdini, mi fu fatto sparire il Tfr dall’ultima busta paga. Un codice retributivo inventato e il gioco è fatto.

Dopo quattordici mesi di causa sindacale sono riuscito a risolvere tutto, ma l’esperienza rimane come una delle più allucinanti della mia carriera.

Alla fine ci sono cascato anche vicino a casa. A me piace questo lavoro, e non so se potrò mai viverci completamente senza. Pensavo di essermi protetto bene, ho cambiato i termini delle mie richieste così da poter preservare la mia libertà di vita. Ho iniziato a chiedere un contratto a chiamata, da pianificare anche mensilmente o ogni due mesi, ma così da poter aver ogni tanto il week-end libero o per portare avanti altri progetti.

Per la terza volta mi ha contattato una delle location più prestigiose per matrimoni del Triveneto, uno di quei posti che, a nominarlo alle persone intorno a me, sbalordiscono e rimangono esterrefatti al solo pensiero di che posto magico sia. Un posto dove gli sposi arrivano in Ferrari e i Rolex ai polsi degli invitati si sprecano, dove si pasteggia a Champagne buoni e si invitano grandi chef a firmare i piatti.

Magico sì, ma dopo qualche turno capii che esiste anche la magia nera.

Negli orari del personale non esiste un orario di fine, solo un orario di inizio. Il primo giorno ho finito alle 20.30, il secondo alle 3.55 del mattino.

La seconda settimana il venerdì ho lavorato dalle ore 13.00 alle ore 03.50, senza pausa, senza che nessuno mi chiedesse se avessi fame o sete. Per quasi quindici ore di fila ho dovuto correre da una parte all’altra, spostare casse di vini per centinaia di metri senza carrelli, spostare tavoli, bicchiere, piatti, fiori, casse d’acqua, fuochi d’artificio, con il sole e una temperatura da termometro di 34 gradi centigradi. I responsabili oltremodo stressati e arrabbiati con i nuovi della brigata, la cui metà non aveva mai lavorato in ristorazione in vita sua e buttata in mezzo al ring a metà incontro di boxe. Ti fermi un attimo a bere ed ecco che spunta uno dei due responsabili a riprenderti, a chiederti perché sei fermo, chi ti ha dato quella Coca-Cola.

Due dei nuovi si son licenziati dopo il primo week-end, e la brigata, che già era tirata, ora è tiratissima, e ci sono ancora veramente tanti matrimoni da fare. I responsabili, sempre più nervosi, al mio ultimo servizio hanno iniziato a urlare alle persone, perché facevano domande inutili, perché si erano fermati a riposare, perché erano incapaci. Avanzati quattro spaghetti nella pentola dello chef, il responsabile di servizio li ha presi e buttati via dicendo che non ci dà da mangiare nemmeno questi.

Foto di Eric Krull su Unsplash

Prima del primo servizio della stagione ci riuniscono in una stanza e ci distribuiscono il contratto da firmare, tutti assieme, tutti lo stesso contratto. In fase di assunzione avevo contrattato quattordici euro netti l’ora, e mi son permesso di chiedere come mai nel contratto era scritta una cifra diversa da quella concordata (davanti a tutti i miei colleghi, visto che dovevo firmare subito in piedi un contratto di cinque pagine). Non dovevo preoccuparmi, i 10,68 euro lordi l’ora erano solo sulla carta, poi a fine settimana si passa in ufficio a ritirare il resto e si aggiustano i conti. Come da contratto, io, da buon “operatore agricolo con mansione di addetto ai tavoli”, ho svolto il mio servizio, come sempre, al meglio delle mie possibilità psicofisiche, e ricevendo qualche lusinga e complimento dai colleghi meno esperti.

A fine settimana, dopo una lunga sudata settimana, son passato in ufficio. Dopo quattro turni, ho scoperto che a mano ti danno il 95 per cento dello stipendio. Ho chiesto spiegazioni e mi è stato risposto che lo fanno per noi, così paghiamo meno tasse e non andiamo a pagare cifre folli allo Stato l’anno dopo. Purtroppo, in nessun modo riesco a provare gratitudine, anche se non credo che lo Stato italiano sia fra i più onesti nei quali ho vissuto.

Lavorare in sala è uno dei mestieri più belli del mondo. Io sono profondamente innamorato del mio lavoro, ma negli anni ho capito che tale deve rimanere, che la vita è fortunatamente anche altro. La vita è composta dagli affetti, dagli amori, dagli amici, dagli hobby, dagli sport, dagli aperitivi e dalle cene, e dal godersi come più si vuole le ore della propria giornata che non si passa a lavorare.

Il lavoro deve nobilitare l’uomo, renderlo più appagato e felice, offrirgli un mezzo per sostenere sé stesso e i suoi cari, non deve trasformarsi in un supplizio che non vedi l’ora che finisca. Mangiare, bere e riposarsi durante doppi turni massacranti (e per certi versi illegali?) dovrebbe essere un’ovvietà, per non ridurre all’osso sia i nuovi entusiasti che si cimentano nell’arte sia per non svenare i più temprati che dimostrano già tanti anni in più di quanti ne hanno realmente. Il maître o il responsabile ha diritto e dovere di dirigere la brigata come meglio crede, ma non diffondendo terrore, odio e nervosismo gratuito per il semplice fatto di non aver posizionato correttamente un tovagliolo al primo turno della propria vita in ristorazione.

Il lavoro non può portarti a dover ricorrere a costanti massaggi, sedute dal fisioterapista, disturbi alimentari, costanti dolori ai muscoli delle gambe, emorroidi settimanali per la disidratazione e lo stare troppo ore in piedi – e non c’è da sorprendersi se la percentuale di persone che abusano di alcol e droghe è così alta nel settore; tutto “per tirare avanti”. Il lavoro non può sminuire l’uomo, farlo sentire piccolo e abbassarlo, ma lo dovrebbe rendere più forte, felice e mettere in mostra le sue capacità più splendide.

Dite che sia colpa del reddito di cittadinanza e della disoccupazione se nessuno vuole più lavorare in ristorazione? Io non percepisco né uno né l’altro, e v’assicuro che la voglia di continuare in questo settore diminuisce a ogni servizio che faccio e quella di tornare all’estero cresce maniacalmente.

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