È una scia di sangue ininterrotta quella che, motivata da odio e pregiudizio, attraversa indistintamente i cinque continenti. E di questa atroce quanto insensata mattanza, spesso consumata nell’indifferenza più totale, le vittime sono loro: le persone transgender. Ben trecentoventi, infatti, quelle uccise dall’1 ottobre 2022 al 30 settembre 2023, di cui la maggioranza, pari al novantaquattro per cento, erano donne trans.
Il numero più consistente di omicidi ha riguardato soggetti di età compresa tra i diciannove e i quarant’anni (settantasette per cento: centonovantuno casi), di professione sex worker (quasi il quarantotto per cento: settantotto casi), di gruppi etnici di pelle nera o razzializzati. Sotto quest’ultimo rispetto si è registrato, rispetto allo scorso anno, un incremento del quindici per cento con il superamento della preoccupante soglia dell’ottanta. Se sono poi ottantaquattro e settantotto le persone trans rispettivamente assassinate in strada (ventotto per cento) e in casa propria (ventisei per cento), sale invece a centosessantaquattro il numero delle vittime, laddove lo si relazioni alla modalità omicidiaria: il quarantasei per cento è infatti morto per colpi d’arma da fuoco.
Da un punto di vista geografico, sono ancora una volta l’America Latina e i Caraibi a detenere il ben triste primato con duecentotrentacinque transicidi (settantatré per cento), di cui cento in Brasile e cinquantadue in Messico. In Europa, infine, dove tali assassinii sono stati sedici – il quarantacinque per cento dei quali ha riguardato persone migranti o rifugiate –, è l’Italia, ex aequo con la Turchia, a nuovamente aggiudicarsi la maglia nera con tre casi in tutto.
A dirlo è l’ultimo report Trans Murder Monitoring (TMM), pubblicato il 13 novembre in vista dell’odierna ricorrenza del Transgender Day of Remembrance (TDoR) o Giornata della memoria transgender e curato dall’organizzazione non governativa internazionale Transgender Europe (Tgeu). Non meraviglia pertanto il moltiplicarsi di manifestazioni, che da ieri si stanno tenendo anche in tutta Italia.
Celebrata la prima volta nel novembre 1999 a San Francisco e Boston su iniziativa di Gwendolyn Ann Smith, che la ideò in ricordo di Rita Hester, donna trans afroamericana uccisa con venti coltellate, il 28 novembre 1998, ad Allston nel Massachusetts, l’annua ricorrenza è finalizzata a commemorare le tante persone uccise per odio o pregiudizio transfobico. All’iniziale progetto web Remembering Our Dead si aggiunse sin da subito la caratteristica veglia a lume di candela, mentre il Transgender Day of Remebrance veniva definitivamente fissato al 20 novembre, giorno in cui nel 1995 era stata uccisa a Watertown, sempre in Massachusetts, un’altra donna trans nera: Chanelle Pickett.
Negli anni il TDoR si è caricato di ulteriori significati e fini rispetto a quello primario della commemorazione, a partire da un’attenta sensibilizzazione della pubblica opinione al dramma di chi è discriminata o subisce violenza per la propria identità di genere.
Sensibilizzazione e memoria non escludono, anzi postulano, riflessioni tali da poter fondatamente concludere che le vittime effettive siano annualmente in numero superiore ai casi censiti dal Tgeu: di quanto avviene in molti paesi, ad esempio, non sappiamo nulla, dal momento che si tende a identificare le persone uccise per transfobia secondo il genere assegnato alla nascita e i relativi dati anagrafici. Il che, oltre a costituire l’ennesima violenza post mortem, impedisce di fatto che si abbia contezza del numero reale delle persone trans ammazzate nel mondo.
Non meraviglia pertanto che per il medesimo periodo 1 ottobre – 30 settembre di ogni anno i report cronologicamente compilati dal sito sul modello Tgeu, ma da cui si discostano in alcuni punti, diano sempre di volta in volta un numero complessivamente maggiore di casi. Ne è riprova l’ultimo resoconto, che censisce trecentonovantadue vittime. Una tale discrepanza è spiegabile alla luce dei criteri adottati da Anna-Jayne Metcalfe, creatrice del citato sito, nell’approntare e aggiornare quasi quotidianamente tale report: rispetto a quello del Tgeu, risulta infatti ampliata la classifica delle modalità di morte violenta con l’inclusione dei suicidi e dei trattamenti sia carcerari sia medici.
È vero che per le tre categorie menzionate, salvo casi indubitabili, è poco agevole provare con assoluta certezza la correlazione tra odio transfobico e morti violente. Ma se ne può parlare, e a ragione, in senso lato soprattutto quando ci si riferisce ai suicidi: le persone trans, in particolare quelle più giovani, sono infatti particolarmente esposte, quando non indotte, a condotte suicidarie.
A Linkiesta Cristina Leo, psicologa, attivista trans e vicepresidente dell’associazione romane GenderX, ricorda che «non abbiamo dati, ad esempio, da Paesi come la Russia e la Cina, per non parlare di larga parte del continente africano. Conseguentemente, il monitoraggio risente gravemente sia dell’under-reporting sia dell’under-recording». Il riferimento, per capirsi, è rispettivamente alla mancanza di denunce, che determina una sottostima del fenomeno, e al mancato riconoscimento della matrice discriminatoria del reato da parte delle forze di polizia e degli altri attori del sistema di giustizia penale. I numeri dei report, conclude Leo, «sono dunque solo la punta di un iceberg. Come i femminicidi, e voglio ricordare quello di Giulia Cecchettin, anche i transfemminicidi, i transicidi e i suicidi causati da transfobia sono purtroppo delle giornaliere certezze, frutto di un sistema patriarcale, che miete le sue vittime sacrificali soprattutto là dove ci si discosta dai suoi modelli».