Avevo scritto qui, giorni fa, dell’incompresa portata anche simbolica del pogrom del 7 ottobre. Il fumo che si levava dai corpi degli ebrei bruciati in un tiepido cielo mediorientale era uno spettacolo abbastanza ripugnante, ma il ricorso aggravato dell’orrore ha fatto sì che a guardare la scena fosse anche qualche vegliardo che ottant’anni fa aveva negli occhi le volute che venivano su dai forni della Shoah. Il fumo fatto dai corpi dei genitori e dei fratelli, lui all’inizio della vita, allora; il fumo fatto dai corpi dei figli e dei nipoti, lui alla fine della vita, ora.
Solo che non capivo a che cosa esattamente fosse dovuta quella plateale e diffusa incapacità di apprezzare appunto il carico anche solo simbolico di quelle scene, fermo che c’era una certa sufficienza già nell’atteggiamento generalmente rivolto al fatto crudo dei massacri che le riempivano. Poi ho capito, o almeno credo. Si tratta di questo: che in realtà lo spettacolo delle settimane scorse evoca meno l’enormità della tragedia del secolo passato che l’indifferenza in cui essa si consumava. Non fa trasalire l’immagine di un ebreo ucciso in un kibbutz se un apparato di scontatezza e noia storiografica assiste la memoria precettata una volta all’anno in favore di quelli rastrellati e mandati nei campi qui da noi. Non impressiona vedere una vita che vede due volte lo stesso orrore, se non si vede che è lo stesso. E se non si vede che è lo stesso non è per altro, ma perché non si vede l’orrore che è stato: di modo che non lo si riconosce quando si ripresenta.
In realtà il 7 ottobre non ci rinfaccia Auschwitz, le leggi razziali, i vagoni piombati, non ci rinfaccia quel passato: in realtà ci rinfaccia l’urgenza di una faccenda più intima e molto più implicante, cioè l’incapacità di capire che quel passato ha preso a fare capolino non per la forza di chi oscenamente ne ripropone gli intendimenti, ma per la debolezza di chi un’altra volta sta a guardare senza vedere e senza capire.