Ieri ho visto, con soli sette mesi di ritardo, l’unico tweet interessante che sia stato scritto su Martin Amis quando, a maggio, è morto lasciandoci con le inadeguate parole non sue. L’aveva scritto Marco Cassini, editore, e raccontava una scena avvenuta al festival di Mantova nel 1998.
Rievocava Cassini che Carlo Lucarelli, che presentava Amis sul palco (un’esperienza sulla quale vorrei interrogare Lucarelli per ore), gli avesse chiesto se si sentisse parte d’una generazione di scrittori. La risposta di Amis ve la dico dopo, prima devo raccontare un’altra storia.
È una storia di ossessione per le parole, e voi direte: ce ne racconti una al giorno. Ma c’è una parola dalla quale sono persino più ossessionata che dalle altre, e quella parola è: orgoglio. Gli esseri umani di cui sono coeva sono fieri di andare a letto con gente del tal sesso o del tal altro, di avere la pelle del tal colore o del tal altro, di essere nati nel tal posto o nel tal altro, di tenere per la tal squadra – insomma, avete capito: sono orgogliosi di cose che gli sono capitate per caso, e per le quali c’è quindi poco e niente da inorgoglirsi.
Oppure di traguardi conseguiti, ma veramente minimi: i figli che imparano a leggere (di solito hanno sui dodici anni), la libreria Ikea montata guardando un tutorial di YouTube, l’essersi ricordati di portare giù il vetro nel giorno della raccolta della differenziata, o di comprare per tempo i regali di Natale. Gli esseri umani, nel secolo che ha inventato la sindrome dell’impostore, si percepiscono degni d’orgoglio per qualunque puttanata.
«Sono fiera che si sia trovata una soluzione». Si parla della pace nel mondo? Non proprio. D’una crisi di governo scampata? Non esattamente. Si parla del treno lollobrigido, il Frecciarossa che qualche settimana fa è stato fatto fermare fuori programma per far scendere un ministro che non poteva aspettare gli abituali ritardi, uno scandalo d’un quarto d’ora (uno scandalo di durata media: gli scandali son più brevi dei ritardi abituali dei Frecciarossa, l’economia dell’attenzione viaggia più spedita delle ferrovie dello stato) di cui pensavamo non avremmo parlato mai più.
E invece, ridando nuova vita a un argomento buono ormai solo per battutisti ripetitivi, ieri i giornalisti presenti ad Atreju, la sagra di Fratelli d’Italia, hanno chiesto ad Arianna Meloni – sorella della presidente del Consiglio ma soprattutto moglie del ministro capostazione – cosa pensasse dello scandalo di quel treno. E lei non ha detto parliamo piuttosto di come abbiamo convinto Elon Musk a venire qua, non ha detto che il treno dei desideri nei suoi pensieri all’incontrario va: lei ha detto che è fiera.
L’ha ripetuto più volte, persino: si trovano vari filmati, in diversi momenti, giacché evidentemente diversi giornalisti le hanno rifatto la domanda (figurati, non gli sarà parso vero: finalmente una cosa che fa tanti clic quanti i messaggi della ragazza morta, e senza farci sembrare degli avvoltoi).
E lei, che evidentemente si era preparata le parole e aveva selezionato con cura l’aggettivo «fiera», che è sinonimo di «orgogliosa» ma fa meno busoni pride, ha ripetuto compita.
Trascrivo dalla dichiarazione a SkyTg24, senza neppure sistemare la grammatica: «Sono una persona che se deve fare una critica la fa, anche al ministro Lollobrigida, e le assicuro che io sono stata fiera di quello che ha fatto Francesco, perché ha fatto bene a trovare, il suo staff, credo, non lo so, a trovare una soluzione di una cosa che hanno sempre fatto tutti, e sulla quale si è voluta per forza montare un caso, quando Francesco stava scendendo per andare in un posto che aspetta un segnale dalle istituzioni, quindi è stato un bel segnale non lasciare quelle persone ad aspettare invano qualcuno che non si sarebbe presentato, magari per l’ennesima volta, quindi io penso che forse tutti avrebbero dovuto proprio stringersi intorno a questa cosa, perché importante in quel momento era arrivare a Caivano, secondo me, io sono stata fiera che insomma lo staff si sia mosso in quel modo, quindi penso, gli ho fatto i complimenti».
Una soluzione di una cosa che hanno sempre fatto tutti. Si è voluta montare un caso [sic]. Forse tutti avrebbero dovuto proprio stringersi. Gli ho fatto i complimenti.
Signora Meloni, la prossima volta mi chiami. Se mi promette d’impararli con le concordanze giuste, i pistolotti in cui si rivendicano i pasticci come fossero scelte sensate glieli scrivo io, pur di non dover più trascrivere una roba del genere.
Prometto di limitarmi a due subordinate a paragrafo, e di metterci dentro qualche parola che le sia familiare, di quelle semplici che piacciono all’elettorato che ambisce a fermare treni su richiesta. Fiera, complimenti, per forza, bel segnale: quelle parole lì.
Quando ho visto il tweet di Cassini su Amis a Mantova (mica ve ne sarete già scordati), ho pensato: anch’io. Riferiva infatti Cassini che, alla domanda di Lucarelli sul sentirsi parte d’una generazione di scrittori, Amis avesse risposto con le parole d’una canzone che conoscevano proprio tutti: «Yo no soy marinero: soy capitán».
Il contesto è: è il 1998, Amis è già quello che si è rifatto i denti e ha trasformato Andrew Wylie nello Squalo e ha scritto quel romanzo che basterebbe a una carriera che è “L’informazione”, ha pubblicato da poco “il Treno della notte” e sta scrivendo “Esperienza”. È un autore esattamente a metà tra i suoi due libri fondamentali, ha quarantanove anni, è invincibile. Cosa diavolo deve rispondere? Certo che è capitán, su. Mica è quella la cosa rilevante.
La cosa rilevante è che io guardo il tweet e penso non vergognandomene neppure troppo: speriamo che qualcuno m’intervisti e mi chieda una cosa simile, voglio assolutamente rispondere «yo no soy marinero». La cosa rilevante è che lo fotografo, lo metto nelle storie di Instagram e, di lì a due ore, ricevo una decina di messaggi di persone che mi dicono che è la risposta che vogliono dare assolutamente, e quindi sperano nella domanda.
In “The Moronic Inferno”, una raccolta dei suoi pezzi di giornalismo culturale pubblicata nel 1986, Amis usava la fierezza e l’orgoglio per descrivere un pirla che lavorava nella magione di Hugh Hefner; e sé stesso, che si rileggeva compiaciuto per poi scoprire che aveva scritto una cosa sbagliata. Ma, soprattutto, in un articolo su Saul Bellow, diceva quant’era fiera l’America di annichilire i suoi scrittori. Di come li riduce ubriachi o suicidi o – noi no, ecco. Nessuna descrizione ci è altrettanto estranea, a noi con l’impostura dell’impostore.
A noialtri d’un po’ tutti i mestieri, l’Italia ci rende mitomani. Ci rende gente che si dice fiera di sé o dei congiunti, orgogliosa di sé o dei figli, gente che vanta successi immaginari e corre a dire che anch’io, anch’io voglio dire che no soy marinero. E, se lo fa a noialtri che neanche fermiamo treni, immaginiamoci a loro.