Facciamo chiarezza Bentonite, questa sconosciuta

Il tema vi ha appassionato, e dopo la puntata di Report tutti vi state chiedendo che cos’è e come si usa in enologia questa sostanza. Ecco quello che dovete sapere per parlarne con cognizione di causa

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È diventata celebre dopo la scorsa puntata di Report, di cui abbiamo parlato lungamente qui. Ma nessuno ci ha davvero spiegato che cos’è, a che cosa serve e soprattutto se è dannosa per la salute. Ci proviamo noi.

Innanzitutto: che cos’è? 
La bentonite è un minerale argilloso (chiamata anche generalmente argilla) estratta e purificata tramite lavaggi e selezionata a seconda dello scopo per cui si deve utilizzare. La bentonite è in grado di assorbire molta acqua, formando un gel viscoso e denso.

Proprio in virtù di queste caratteristiche, trova moltissimi usi sia in campo industriale che in campo alimentare, a purezze e con lavorazioni differenti. Alcuni tipi vengono utilizzati per esempio per stabilizzare le pareti dei canali di estrazione dell’industria petrolifera per evitare che collassino, per lubrificare la punta di perforazione e ancora per convogliare i detriti in superfice.

Altri tipi di bentonite, quelli che interessano a noi, vengono invece utilizzati nell’industria farmaceutica come eccipienti o stabilizzanti in pomate e unguenti (le famose maschere da viso, per esempio) oppure ancora veniva utilizzata come additivo in alcuni alimenti e integratori (non è più permesso dal 2014 a causa della presenza di alluminio).

Altri tipi di bentoniti ancora vengono utilizzati infine per la chiarifica e la stabilizzazione a livello proteico del mosto o del vino, ma in questo caso non si parla di additivo (E558) ma bensì di coadiuvante tecnologico. La differenza è sottile ma fondamentale, nel primo caso con additivo si intende che la bentonite diventerà parte del prodotto dopo essere stata aggiunta, nel secondo caso invece il coadiuvante verrà separato dal prodotto dopo aver svolto il suo compito.

E in enologia?
Nel vino vengono principalmente utilizzati due tipi di bentonite: le calciche e le sodiche, ciascuna con azioni ed efficacia diverse su diversi composti.  

Partiamo dalle basi, come abbiamo fatto per l’acido tartarico, e quindi dal problema: nell’uva sono presenti amminoacidi e proteine. Una parte di questi presenti nel mosto vengono utilizzati dal lievito durante la fermentazione. All’inizio della fermentazione si misura infatti il cosiddetto “APA” o Azoto Prontamente Assimilabile (la somma dell’ammonio presente in forma inorganica e degli amminoacidi al netto della prolina, che il lievito non è in grado di utilizzare). Una parte di questi amminoacidi e proteine rimangono però comunque in soluzione all’interno del vino finito, rendendolo così una soluzione tendenzialmente instabile a determinate temperature.

Ricordiamo che questa problematica si verifica più spesso nei vini bianchi piuttosto che nei vini rossi: il vino rosso infatti fermenta e macera solitamente a temperature più alte dei vini bianchi, promuovendo così una stabilizzazione preventiva di questi composti, inoltre i tannini presenti mimano l’effetto della bentonite aiutando a stabilizzare il sistema, come spiegheremo più tardi, a seconda delle varietà in quantità più o meno rilevante (sicuramente più rilevante che nei vini bianchi). 

Vi faccio un breve esempio per capire meglio… Avete presente che cos’è un uovo? L’uovo di struzzo è la cellula più grande esistente. L’uovo è in sostanza un’unica cellula, che si svilupperà e moltiplicherà quando verrà covato e diventerà eventualmente un pulcino. L’uovo è ricchissimo di proteine e amminoacidi. A temperatura ambiente l’albume è trasparente e liquido: una volta cotto diventa bianco e solido. Cuocendolo abbiamo infatti denaturato le proteine al suo interno.

Più o meno la stessa cosa succede nel vino: a basse temperature (non eccessivamente basse, diciamo per comodità fra -5° e 20°C) le proteine rimangono stabili, trasparenti e in soluzione; quindi, il vino alla vista risulterà limpido. Se la temperatura invece sale, le proteine lentamente tenderanno a denaturare, diventando solide e velando o intorbidendo il vino.

Si dirà quindi in questo caso che il nostro vino è proteicamente instabile. Questo determinerà un cambio delle caratteristiche organolettiche? No, ma determinerà sicuramente un intorbidimento del liquido che non è esteticamente gradevole. 

Come risolviamo questo problema?
In questo caso ci vengono incontro non solo la fisica e la chimica, ma anche il “magnetismo”. Le proteine, al pH del vino che ricordiamo essere acido, tendono infatti ad avere una carica elettrica positiva. La bentonite, al pH del vino, ha invece una carica negativa (ricordatevi anche i tannini, come spiegato prima). Aggiungendo della bentonite al vino da stabilizzare e chiarificare, le due sostanze in soluzione tenderanno quindi ad attirarsi. Le proteine verranno quindi “catturate” dalla bentonite creando un flocculo (un corpuscolo) che sarà troppo pesante per rimanere in sospensione e cadranno per effetto della gravità, precipitando quindi sul fondo del nostro serbatoio o sul fondo della nostra bottiglia se avremmo fatto male i calcoli o se avremo deciso di non curarci di questa eventualità. 

Quanta se ne usa e come si usa?
Prima di utilizzarla, la bentonite va preparata, reidratandola. La struttura microscopica della bentonite è formata infatti da una specie pacco di “foglietti sovrapposti”. Quando è secca, in polvere, questi foglietti sono uno appoggiato all’altro, come una sfoglia prima di cuocerla. Mettendola invece in una determinata quantità di acqua la bentonite la assorbirà lentamente (una buona reidratazione a condizioni di pressione e temperatura normale può durare anche una notte o più) e le sue molecole andranno a inserirsi tra i famosi foglietti sovrapposti, creando una sorta di millefoglie: al posto della crema ci sarà in sostanza l’acqua. 

Questo ci fa capire come la superficie di contatto e quindi la superficie assorbente della bentonite aumenta in maniera esponenziale, aumentando di conseguenza la sua capacità deproteinizzante. 

Se ne usa la quantità necessaria: quella che serve per eliminare le proteine in eccesso, non di più e non di meno. La quantità andrebbe valutata sempre prima della chiarifica, per farlo, uno dei metodi più utilizzati è il cosiddetto test a caldo: in sostanza si stressa un piccolo campione di vino in esame filtrandolo a limpidezza e mettendolo a bagnomaria ad alta temperatura 50/60/70°C per un determinato tempo. Alla fine del test e dopo raffreddamento del vino si andrà a confrontare la torbidità prima e dopo il riscaldamento (l’unità di misura utilizzata in questo caso sono gli NTU o Nephelometric Turbidity Unit). Più questo differenziale di lettura fra prima e dopo il test sarà alto, più sarà alta la presenza di proteine instabili e più ci sarà bisogno di bentonite. 

I dosaggi variano moltissimo a seconda del tipo di bentonite utilizzata, delle varietà di uva lavorate, del momento della chiarifica durante la vita del vino, dell’età del vigneto da cui quel vino è stato prodotto, della quantità di uva prodotta, dell’annata, dello stato sanitario di quell’uva e molto altro…

Questo processo di misura, chiarifica e stabilizzazione viene messo in opera solitamente poco prima di andare in bottiglia, da qualche mese a un paio di settimane prima, in modo che la bentonite e le proteine “catturate” da essa abbiano il tempo di decantare e sia poi possibile separarle con un ultimo travaso, una centrifugazione o una filtrazione prima dell’imbottigliamento.

Attenzione: è possibile imbottigliare un vino limpido, e che rimanga tale anche a temperature superiori a quelle di cantina, senza aver fatto nessun trattamento con bentonite. Capita infatti a volte che da vigneti particolarmente vecchi e particolarmente in equilibrio, e in annate favorevoli, il vino risulti stabile anche senza chiarifica. Evenienza possibile, ma rara. 

Un’altra modalità per rendere un vino stabile è lasciarlo molto a lungo a contatto con le fecce, sur lies, in modo che le mannoproteine fungano da colloide stabilizzante, una sorta di “rete di sicurezza” invisibile, oppure sottoporlo preventivamente a una certa quantità di calore, cosa che però generalmente non si effettua perché rischia di rovinare altre caratteristiche del vino e accelerare molte attività enzimatiche anche indesiderate.

In buona sostanza possiamo dire che come spesso succede in natura la “stabilità proteica” si verificherebbe probabilmente in maniera spontanea ma richiederebbe tempo, molto tempo e pazienza e in qualche caso ci allontanerebbe dall’obiettivo qualitativo che avevamo in testa, per non parlare dell’obiettivo economico.

La bentonite fa male?
È tendenzialmente inerte a livello salutistico. Non fa male, ma se se ne abusa ingerendone grandi quantità può portare a problemi intestinali. Attenzione però, nel vino la bentonite non è presente perché viene separata dallo stesso, non sarà quindi possibile ingerirla tramite il vino, quello che però si ritrova nel vino dopo il trattamento con questo minerale è un livello più alto della partenza di alluminio, che fra le altre cose è un foto-ossidante e quindi indesiderato nei vini, soprattutto nei bianchi.

Ricordiamoci sempre che ogni manipolazione che si esegue sul vino toglie un problema o potenziale tale ma toglie anche altre sostanze, magari positive per il sapore finale, o aggiunge qualche sostanza indesiderata, seppur in quantitativi infinitesimali. Non è quindi il caso di pensare che noi “piccoli chimici” ci divertiamo ad eseguire trattamenti con la bentonite per un malsano ideale sportivo; la usiamo solo ed esclusivamente quando è necessario e anche per venire incontro a una richiesta dei consumatori, che davanti a un vino “velato” molto spesso storcono il naso.

La domanda finale che si pone è quindi la seguente: non vogliamo più che l’enologia e la produzione utilizzino la bentonite, non c’è problema, cominciamo a non farci troppi problemi se un vino arriverà sulle nostre tavole torbido e velato, cominciamo a non pretendere più a dicembre al ristorante il “bianco fresco” dell’annata ancora in corso e iniziamo a pensare che anche i vini bianchi possono invecchiare e affinare in modo egregio, dando così il tempo al produttore e al suo vino per trovare un equilibrio. 

Per concludere, se dobbiamo accelerare i tempi della natura, gli strumenti a livello tecnico ci sono ma dobbiamo accettarli, se non li accettiamo, dobbiamo dare il tempo alla natura di fare il suo corso.

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