Le parole sono importanti, sempre, ma nelle conferenze sul clima un po’ di più. Soprattutto in un’edizione piena di dubbi e scandali già prima della giornata inaugurale, con un presidente petroliere e uno Stato ospitante che, di fatto, ha costruito le sue fortune grazie ai combustibili fossili. Se nel film “Palombella rossa” ci fosse stato Sultan Al Jaber, lider màximo della Cop28 nonché Ceo dell’Abu Dhabi National Oil Company (Adnoc), al posto di Mariella Valentini, Nanni Moretti si sarebbe arrabbiato ancora di più. «Ma come parla?!», presidente Al Jaber, che il quinto giorno del summit ha convocato una conferenza stampa per ribadire la sua fedeltà alla scienza, dopo che un leak ha rivelato le sue tendenze negazioniste.
«Ma come parla?!», presidente Al Jaber, che a Dubai ha invitato migliaia di delegati provenienti dall’industria fossile, sbriciolando ogni record possibile. Non possiamo rinunciare dall’oggi al domani ai combustibili fossili (lo spiega bene Stefano Caserini in questa intervista), ed escludere le imprese dell’oil&gas dai dialoghi sul riscaldamento globale sarebbe controproducente per tutti: chi fa parte del problema può anche rivelarsi un tassello importante nell’ottica di una soluzione. Le Cop sono e saranno sempre dei preziosissimi luoghi di democrazia.
Ma 2.456 lobbisti del fossile nell’evento “climaticamente” più rilevante dell’anno è una cifra inquietante e irragionevole, considerando i circa seicento dello scorso anno a Sharm el-Sheikh. Una Cop in cui, lontano dai tavoli delle trattative green, si stringono accordi fondati su gas e petrolio. Come conferma un nuovo report di Climate action against disinformation, a Dubai l’industria dei combustibili fossili ha avviato una campagna politica «mediatica e sistematica per far deragliare gli sforzi globali volti all’eliminazione graduale dei combustibili fossili». E ci è riuscita. Un esempio? Nel testo finale è stato riconosciuto un ruolo ai cosiddetti “combustibili di transizione” nell’ottica di garantire la sicurezza energetica nel breve-medio periodo.
Nella seconda metà dei negoziati, oltretutto, l’Opec (Organizzazione dei Paesi esportatori del petrolio) ha mostrato i muscoli e annacquato tutte le ambiziose bozze circolate fino a quel momento, escludendo il termine phase-out (eliminazione graduale) associato alle fonti energetiche di origine fossile. Un sabotaggio che, secondo gli osservatori, è stato perfettamente orchestrato dalla Russia, uno dei principali produttori ed esportatori di petrolio e gas al mondo.
Le premesse erano queste. Drammatiche vicissitudini che, giorno dopo giorno, hanno oscurato il buon risultato iniziale del fondo Loss and damage, comunque contraddistinto da poche risorse (settecento milioni) rispetto alle reali necessità (parliamo di miliardi) dei Paesi più poveri e meno responsabili dell’emergenza climatica.
Ecco perché l’accordo finale della Cop28, per quanto morbido in confronto ai testi circolati nella prima settimana, fa tirare un sospiro di sollievo e può essere definito storico senza mezzi termini. Per la prima volta in ventotto anni, nel documento di una conferenza Onu sul clima sono state menzionate esplicitamente tutte le fonti fossili, che con le loro emissioni di gas serra hanno mandato in tilt il clima del nostro Pianeta. Non citarli sarebbe stata una vittoria, tra gli altri, di Vladimir Putin, capace di impattare sulla Cop28 senza nemmeno metterci piede. Un risultato enorme, viste le aspettative.
Si è chiuso ieri, con un giorno di ritardo, un summit sul clima in cui le parole sono state non solo la chiave delle trattative (come di consueto), ma anche il termometro emotivo di un evento sfibrante, esoso e intricato fino all’ultimo. Il sogno del phase-out, i fantasmi del phase-down (riduzione graduale), i dubbi sul futuro della Ccs (la cattura e stoccaggio della CO2, menzionata nell’accordo ma con un ruolo marginale), i settori hard to abate (in cui sarà necessaria la Ccs in quanto complessi da convertire alle rinnovabili), le fonti fossili abated e unabated, il primo Global stocktake (Gst). Parole complesse ma essenziali nei negoziati sul clima.
Alla fine, l’espressione chiave della Cop28 è stata «transitioning away», che indica una fuoriuscita, un allontanamento graduale da gas, petrolio e carbone. Un processo che, stando all’articolo 28 del documento conclusivo, deve avvenire «in modo giusto, ordinato ed equo» (auguri a chi dovrà interpretare questi termini così vaghi) e accelerare «in questo decennio critico, in modo da raggiungere le zero emissioni nette entro il 2050, in linea con la scienza» (l’Ipcc).
John Silk, capo delegazione per la Repubblica delle Isole Marshall, ha definito l’accordo della Cop «una canoa dallo scafo debole e pieno di buchi». In ogni caso, ha aggiunto, «dobbiamo gettarla in acqua perché non abbiamo altra scelta. Le maree stanno divorando le nostre coste. I nostri pozzi si stanno riempiendo di acqua salata. E le nostre famiglie sono a rischio». Una dichiarazione che riassume perfettamente il duplice stato d’animo dei piccoli Paesi insulari e di tutte quelle Nazioni più esposte alla crisi climatica.
Transitioning away è un compromesso condiviso da quasi duecento Stati, una sorta di via di mezzo tra phase-out e phase-down, in grado di tracciare il sentiero di una inevitabile – e sempre più conveniente – rivoluzione industriale verde. Quest’ultima, secondo il Global stocktake, deve basarsi sulle rinnovabili (da triplicare entro il 2030), l’efficienza energetica (da raddoppiare entro il 2030), l’idrogeno «low-carbon» e le batterie, senza ignorare totalmente il nucleare.
L’energia atomica, infatti, è entrata per la prima volta nel testo di una Cop, anche se il Gst – come sottolinea Luca Bergamaschi, direttore del think tank Ecco – «non riconosce né la strategicità del nucleare né il suo collegamento diretto con le zero emissioni nette al 2050». La sua posizione, infatti, è marginale rispetto alle tecnologie fondate sulle energie pulite come il solare o l’eolico. Il 2 dicembre, a Dubai, ventidue Paesi hanno firmato un accordo per chiedere di triplicare l’energia nucleare entro il 2050. L’Italia, nonostante gli inutili clamori del governo Meloni, non ha aderito. Ma questo non ha disincentivato Antonio Tajani, ministro degli Esteri, a scrivere tweet fuorvianti sul ruolo dell’atomo nell’accordo finale della Cop28.
Un altro aspetto positivo del documento finale riguarda la finanza climatica. Il testo, infatti, ha messo nero su bianco il «fabbisogno finanziario» per aiutare i Paesi in via di sviluppo ad adattarsi al riscaldamento globale: parliamo di una cifra che oscilla tra i duecentoquindici e i trecentottantasette miliardi di dollari annui fino al 2030. Tuttavia, molti delegati degli Stati più poveri hanno giudicato troppo vago il linguaggio sull’adattamento, privo di limiti temporali vincolanti.
Ad ogni modo, date le premesse e il contesto, la Cop del 2023 si merita una sufficienza piena, e forse qualcosa in più. Il suo merito? Aver sfatato dei tabù utili solo a ingolfare il motore (elettrico!) della transizione verde. Il futuro non può e non deve essere fossile, e a Dubai, nonostante tutto, è stato ribadito nel testo più importante al mondo a livello di diplomazia climatica.
Abbiamo tutti gli strumenti, le tecnologie e i soldi per provare a limitare un’emergenza incontenibile solo in parte. Tradotto: c’è ancora la speranza di rispettare la soglia dei +2°C di riscaldamento globale rispetto ai livelli preindustriali, e forse anche dei +1,5°C (anche se in alcune zone del mondo il “muro” è già crollato). La scienza dice che non possiamo permetterci di andare oltre. Ora è tempo della volontà politica, che a Dubai ha fatto un enorme passo avanti.