Le Vespe e ioI quarant’anni del Domenicale del Sole e quelle profezie che si sono avverate

L’avventura editoriale del quotidiano di Confindustria che ha inaugurato i dorsi culturali dei giornali italiani, raccontata da uno dei fondatori (poi diventato responsabile)

Foto Cecilia Fabiano/LaPresse

Scusate se vado ad allungare la già smisurata lista degli anniversari “chissenefrega” di questo 2023, tra cui il centenario della scritta “Hollywood” sulle colline di Los Angeles, il trentennale del pallone d’oro a Roberto Baggio, i sessant’anni del Gruppo 63, gli ottanta del Piccolo Principe e i sessantacinque dei supermercati Pam (almeno lì ci sono gli sconti) ma cosa volete, noi Boomer amiamo le ricorrenze, soprattutto quando ci riguardano personalmente. Ci piace accumulare cimeli e in un certo senso siamo noi stessi dei cimeli, dei pezzi da museo. Dunque, tenetevi forte, ecco la notizia: il 4 dicembre 1983, quarant’anni fa proprio oggi, usciva il primo numero di un nuovo inserto culturale: la “Domenica” del Sole 24 Ore, meglio noto come “il Domenicale”. E io c’ero. Quattro paginette in coda al primo dorso del giornale: così, quasi di nascosto, partiva un’avventura editoriale destinata a lasciare bene o male un segno nella storia del giornalismo italiano.

In quell’anno, a dire il vero, erano successe parecchie cose: per esempio la nascita della prima bambina italiana in provetta, la scomparsa di Emanuela Orlandi, l’ergastolo agli assassini di Aldo Moro, Bettino Craxi a Palazzo Chigi, l’arresto in Bolivia del criminale nazista Klaus Barbie, il ritiro dal tennis di Björn Borg e il lancio della Fiat Uno a Cape Canaveral. Ma lì, nella palazzina di via Lomazzo a Milano dove si confezionava e si stampava “il Sole” (c’erano ancora le rotative, e in tipografia la fotocomposizione aveva sostituito da pochi anni il piombo), l’evento più atteso era quello: l’inserto della domenica. Lo aveva voluto il direttore di allora, Gianni Locatelli, d’intesa con l’amministratore delegato Giancarlo Lunati, un manager illuminato cresciuto alla scuola di Adriano Olivetti, affidandone la progettazione a me e Lodovico Besozzi.

Il Sole era un giornale specialistico, economico-finanziario, diffuso in prevalenza per abbonamenti, atterrava sulle scrivanie di manager, fiscalisti e notai la mattina di ogni giorno feriale. Ma la domenica ben pochi andavano a cercarlo nelle edicole. Di qui l’idea di aprire, nell’edizione festiva, uno spazio dedicato al tempo libero, alla lettura, alla musica e all’arte, un po’ sul modello del “Financial Times Weekend”. Miravamo agli imprenditori e professionisti colti, quelli che incontri alla Gam, in Triennale o alla Scala, o magari da Sotheby’s. E più ancora alle donne, in carriera e non, che avevano come oggi un ruolo trainante nei consumi culturali.

Il primo numero che abbiamo mandato in stampa, rivisto adesso, ha un’aria piuttosto vintage, quasi un reperto da papirologi. I contenuti, però, riservano qualche sorpresa, a cominciare dalla copertina: “Le sette chiavi per aprire il futuro”, articolo di un bravo giornalista francese, Gérard Bonnot, già uscito sul Nouvel Observateur. Le chiavi che propone sono interessanti, anche se non tutte ci azzeccano. La prima è «Muore il nazionalismo» (mmh…). La seconda «La fine delle università» (bah). In compenso, prevede l’avvento di Internet: «Ciò che conta – scrive Bonnot – è mettere in comunicazione fra di loro tutte le macchine, come avviene nel sistema nervoso. L’epoca del potere assoluto e dell’organizzazione piramidale che ne deriva è superata. È tempo di sostituirle con un’organizzazione di rete». Va detto che proprio il primo gennaio di quell’anno Arpanet, la rete di computer del ministero della Difesa americano ha cambiato protocollo, dando vita a Internet, ma la notizia è circolata solo tra gli informatici. Così come è passato quasi inosservato, a marzo, il lancio del primo telefono cellulare. Altra profezia che colpisce: «Al posto del denaro, avremo carte di pagamento magnetiche. Faremo la spesa per telefono dopo aver scelto i prodotti sullo schermo del televisore. E si lavorerà a domicilio con un terminale collegato a banche dati».

«Sarà quel che sarà», canta fatalisticamente Tiziana Rivale nella canzone che ha vinto il Festival di Sanremo 1983. Ma il brano più votato dal pubblico è “L’italiano” di Toto Cutugno, che ripropone i soliti stereotipi nazionalpopolari, la chitarra, gli spaghetti al dente, il caffè ristretto. Gli italiani sono pronti per il cambiamento? Nella rubrica di spalla, intitolata “Visti dagli altri”, risponde il corrispondente da Roma di un giornale tedesco: no, gli italiani sono creativi ma anche molto conservatori. E cita l’urbanista Pier Luigi Cervellati, fervente comunista, che sostiene: «La parte più moderna di Bologna rimane sempre il centro storico». E il pittore Luca Alinari, di sinistra pure lui, giura che la priorità è «un patrimonio culturale e ideale da conservare». Parliamo di eoni fa, quando c’era la lira, i telefoni erano fissi, i giornali erano di carta, si fumava in ufficio e si guidava senza cintura, ma siamo sicuri che questa resistenza all’innovazione non sia tuttora più viva che mai, anche tra i cosiddetti progressisti?

In seconda pagina, invece, si parla del putiferio sollevato in Francia dal nuovo pamphlet “guerrafondaio” di André Glucksmann (La force du vertige), che smonta i tabù dei pacifisti e propugna una difesa europea contro la minaccia russa: «Il pacifismo è all’Ovest ma gli euromissili sono all’Est». Non vi ricorda niente?

Fin dai primi numeri, il Domenicale si distingue dalle altre pagine culturali per l’apertura internazionale e l’attenzione ai temi della modernità, della scienza e dell’industria. Un tentativo inedito di coniugare tecnica e umanesimo, con una rubrica fissa settimanale sul design e una di bibliofilia, recensioni di filosofia e di storia, di arte e di musica, illustrazioni di artisti contemporanei, da Renato Guttuso a Giulio Paolini, contributi di protagonisti del mondo dell’editoria come Vanni Scheiwiller e Gian Arturo Ferrari. Le copertine affrontano temi di attualità, il libro di Rupert Cornwell sul «banchiere di Dio» Roberto Calvi e lo scandalo del Banco Ambrosiano, o argomenti storici, Renzo De Felice intervistato sulle corporazioni fasciste, o l’indimenticabile Giancarlo Fusco che rievoca l’impresa dei Fratelli Montgolfier. Ma anche curiosità, rubriche sul vino, il cibo o gli scacchi. Era una scommessa azzardata, col pubblico tradizionale del Sole quotidiano. Un trapianto che poteva anche scatenare una reazione di rigetto. Non è andata così, e anzi gradualmente, negli anni, è subentrato un pubblico nuovo, che non comprava il giornale negli altri giorni della settimana. A cominciare da Andrea Camilleri, che lo confessa in uno dei suoi romanzi.

I dieci anni del mio ritorno al Domenicale, dal marzo del 2000 al dicembre del 2009, dopo quindici al Corriere della Sera, sono stati tra i più felici e più liberi della mia carriera. Non mi sono mai divertito tanto. Ma non mi sono neanche mai fatto tanti nemici. Per colpa delle Vespe. Forse qualcuno se ne ricorda. Come sono nate? Ve la racconto in breve. Avevo Zolla, Gregory, Settis, Ravasi, Ossola, Meneghello, Lina Bolzoni, Serena Vitale e tante altre firme stellari di diverso orientamento, che davano lustro alle mie pagine, ma sentivo il bisogno di una nota più irriverente. Una puntura, niente di più. Sono sempre stato convinto che la satira, la comicità, il senso dell’ironia, siano componenti imprescindibili della cultura, se per cultura non si intende un patrimonio stantio, imbalsamato, da spot sovranista (Botticelli, il Colosseo, “la bellezza che tutto il mondo ci invidia”). Un giornale culturale che non sappia prendere un po’ in giro il proprio mondo di riferimento (e magari anche sé stesso) non rende un buon servizio ai lettori.

Così un bel giorno decido di piazzare in terza pagina, ai piedi della lectio magistralis o dell’omelia dell’accademico di turno, un nido di vespe fastidiose e pronte a colpire. Venti, trenta righe, non di più: una puntura, precisamente. Senza firma, anche se essendo io il responsabile del supplemento, l’identità dell’autore è un segreto di Pulcinella. Una specie di tweet prima di Twitter, ma lo stile è ironico, ammiccante, in fondo bonario, niente da spartire con la ferocia e il bullismo dei social che stanno per decollare. I bersagli vengono scelti accuratamente, evitando di sparare cannonate ai moscerini, e badando a rispettare la “par condicio” tra destra e sinistra: sono per lo più pezzi da novanta della società letteraria, grandi nomi dello star system cultural-mediatico, colti in fallo per cadute di stile, ipertrofie dell’ego, paranoie e megalomanie. Nessun intoccabile viene risparmiato: Asor Rosa, Umberto Eco, Dario Fo, Eugenio Scalfari, Giampaolo Pansa, Alessandro Baricco, Alberto Bevilacqua, Lucia Annunziata, Andrea Camilleri, tanto per fare qualche nome. Premi Strega e Campiello, registi osannati e campioni di vendite in libreria. Potenti già in sella e apprendisti potenti, futuri miracolati della Sgarbatella. E vari ministri della cultura, da Sandro Bondi a Dario Franceschini, punzecchiati per le loro ambizioni letterarie. Non ce l’ha fatta Gennaro Sangiuliano, che a quei tempi contava poco o nulla, e languiva segregato dall’egemonia comunista in qualche seminterrato della Rai. Peccato, la sua Vespa se la sarebbe meritata di sicuro.

La rubrica del Domenicale non era cabaret, e nemmeno satira in senso stretto. Era un divertissement colto, un innocuo sfottò, che andava preso con sportività. Avevamo perfino istituito un premio “Vespa d’oro”, una specie di tapiro letterario. Ne furono insigniti, tra gli altri, Umberto Eco, Lidia Ravera e Giorgio Faletti, che rimase un po’ deluso quando scoprì che in palio non c’era, come si aspettava, uno scooter tutto d’oro.

Tutto questo avveniva, tra il 2000 e il 2009, nell’austero giornale della Confindustria. Al direttore in carica ogni tanto toccava subire le contumelie dei “vespizzati”, ma nessuno tentò mai di punire o zittire l’insetto molesto annidato in terza pagina. Anzi, a uno dei maestrini di punta della Nuova Narrazione (oggi insediato al vertice di una importante istituzione culturale), che minacciava querela, Ferruccio de Bortoli rispose che le Vespe non erano mie, ma di tutto il giornale, e che perciò avrebbe dovuto querelare lui.

La lezione del Domenicale in fondo è questa. La cultura non deve servire nessuna causa, partiti, governi, ideologie, chiese o mercato. E per sfuggire al pantano del cosiddetto “pensiero unico” non occorre tuffarsi nel pantano opposto. Basta pensare con la propria testa, ed essere un po’ dispettosi.

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