«TL;DR»I lettori annoiati alla terza riga e le quattro lettere simbolo del tempo in cui viviamo

Da quando leggiamo tutto su uno schermo siamo diventati intellettualmente così pigri che non leggiamo nulla di più lungo d’un commento sui social

di Taylor Wilcox, da Unsplash

C’è sempre un dettaglio che sembra innocuo e poi, quando vai a guardare a ritroso quand’è che tutto ha cominciato ad andar storto, lo noti e ti viene il dubbio che sia stato proprio lui: il dettaglio che ha mandato tutto in vacca.

Nel caso del tempo in cui viviamo – un tempo in cui servono nuovi codici interpretativi perché coi vecchi non ci si capisce più una mazza, ma è complicato procurarsi nuovi strumenti interpretativi in un’epoca di docenti analfabeti, adulti che hanno bisogno dei disegni per non stancarsi a leggere, e istituzioni culturali allo sbando – in questo tempo qui il dettaglio è fatto di quattro lettere.

Chissà chi è il primo che, sotto quelli che taluni anni fa venivano definiti «muri di testo», cioè sotto a qualcuno che aveva osato scrivere più di tre righe online, lasciò quelle quattro lettere.

Le quattro lettere erano fatte così: «TL;DR». Era un (finto) rigo di codice, e significava, con l’acronimo delle parole necessarie a dirlo in inglese, «troppo lungo, non l’ho letto».

La ragione per cui ci sembravano innocue era che fino a un certo punto (per me: ancora oggi) era impensabile leggere da schermo. Due terzi del disordine di casa mia sono costituiti da fogli con articoli di siti internet o mail d’insulti di ex fidanzati o altre amenità provenienti dal computer che, fino all’inizio di questo secolo (inizio inoltrato, diciamo), io ancora stampavo.

Decine di cartucce di stampanti buttate perché ancora avevamo dei neuroni, e quei neuroni volevano capire quel che leggevano, e l’unico modo per capirlo è avere un foglio con cui affrontare la parte fisica di lettura e scrittura. Poi è andata com’è andata, e ora questo articolo lo scrivo dal telefono mentre aspetto che mi facciano il cappuccino: cosa potrà mai andar storto.

Quindi, se qualcuno era così fesso da pensare si potessero leggere più di tre righe in un forum, in commenti social, in roba che nessuno si prendeva la briga di stampare, noi sentendoci spiritosissimi gli scrivevamo maddeché, io questo muro di testo non lo leggo (io quelle quattro lettere non le ho mai usate, ma mi sento comunque corresponsabile).

Sei anni fa Tom Gauld, il più preciso illustratore della contemporaneità, fece una vignetta con nuovi acronimi, che a rileggerli raccontano perfettamente il mondo come lo abitiamo ora.

«VS;SDR» (molto corto, non l’ho comunque letto). «SR;PW» (dovrei leggerlo, ma probabilmente non lo farò). «RB;GB» (ne ho letto un po’, mi sono annoiato). «SR;MP» (letto a saltare, mancato il punto). «RH;PAC» (letto il titolo, lasciato commento furibondo).

Gli ultimi due sono dolorosamente familiari a chiunque scriva cose lette dal pubblico (sia «lette» sia «pubblico» sono ormai parole grandemente inadeguate) e faccia l’errore di spulciare i commenti. Ho un’amica con cui discuto almeno una volta al mese di questo tempo sbandato in cui nessuno capisce neanche i testi semplici, e lei ogni volta mi dice: ma perché leggi i commenti?

È, credo, come ogni relazione disfunzionale: se sai che tuo marito ti cornifica ma non vuoi mollarlo, è inutile che tu vada a cercare le prove per amareggiarti. Ignora, fingiti morta, evita d’infierire su te stessa.

Una volta credevamo che, se il ricevente non capisce, fosse colpa dell’emittente, e non avevamo torto: ma era quando esisteva il pubblico. Quando le letture erano selezionate e, se non sapevi farti capire dal pubblico cui parlavi, la responsabilità era tua. Adesso parli a tutti e quindi a nessuno, e nessuno quindi tutti ti spolliciano mentre aspettano che gli preparino il cappuccino, e poi lasciano un commento furibondo avendo mancato il punto.

Adesso neanche gli intellettuali capiscono, concentrati a intuire solo di che curva faccia parte chi scrive, e se quindi sia amico o nemico. Se Vongola75 dice che i palestinesi non hanno più una terra e duemila anni fa ce l’avevano, e una docente universitaria le risponde furente che duemila anni fa i musulmani neppure c’erano, io per chi devo preoccuparmi delle due? Per quella che ha detto la sua cosa senza una qualifica per dirla, o per quella con le cattedre in bio che non capisce a cosa sta rispondendo perché capisce solo gli schieramenti del dibattito d’attualità con cui si prendono i like quella settimana lì?

Ho letto un’intervista a un linguista che ha studiato i testi di duemila studenti universitari. Il tapino voleva dirci che non sono poi casi disperati come crediamo, certo hanno problemi di punteggiatura, certo non sanno usare le subordinate, ma se fanno studi umanistici e leggono tanto sono meglio degli altri.

Giuro che nell’intervista compaiono queste parole: «Sono 190 le parole impiegate da chi si cimenta nella lettura di almeno dieci libri l’anno contro le 170 di chi lo fa poco». Quindi a leggere tanti libri (dieci libri l’anno sono tanti?) si ha comunque un vocabolario sotto le duecento parole. Ma un vocabolario sotto le duecento parole dovrebbero avercelo i facchini che mi hanno fatto il trasloco, gli stranieri arrivati qui da tre settimane, aggiungete voi le categorie più consone a farmi accusare di classismo e razzismo e abigeato: non gli universitari.

D’altra parte l’anno scorso a una docente universitaria non è piaciuto un articolo che conteneva la mia opinione su una cosa organizzata da lei, e mi ha scritto una lunga mail sostenendo che avrei dovuto pubblicare una rettifica: come possono saper usare le parole gli allievi di gente che pensa che le opinioni vadano rettificate?

Un’amica mi ha fatto leggere una lettera della preside del liceo della figlia. L’antilingua non mi meraviglia, non credo meravigli più nessuno, se una circolare non venisse scritta come un verbale dei carabinieri forse ci preoccuperemmo. Ma, in quel testo in antilingua, ci sono errori di italiano per i quali la signora dovrebbe essere intenta a ripetere le scuole medie come allieva, non a presiedere un liceo.

«Episodi ai quali abbiamo posto la nostra attenzione». «Schiamazzi e lanci di palline fatte di carta, non sono consone». «Apprendere ad autogestirsi è uno dei messaggi più significativi». Per fortuna non ho fatto figli, perché saperli istruiti da gente che era assente quando sono state spiegate le preposizioni, e le concordanze, mi farebbe ammattire. Per fortuna non ho fatto figli, magari mi somigliavano e dicevano alla preside che non ci va la virgola tra soggetto e predicato e quella li prendeva in antipatia.

Certo, io ho fatto il linguistico, e al secondo anno la prof di inglese parlava in pugliese stretto, e quindi so da molti anni che non ci si può aspettare troppo dalla scuola, al massimo nelle ore in cui dovresti imparare Shakespeare finirai per imparare a ordinare una frisella senza sembrare forestiera.

Però una volta tutto ciò non mi riguardava. Perché coloro che leggevo sapevano scrivere, e io se non li capivo non gli mandavo una cartolina illustrata con su scritto «eh ma che palle, troppe subordinate».

Una volta non ci piccavamo di essere intellettualmente pigri, adesso alla terza riga ci siamo già annoiati e smaniamo per lasciare un commento col nostro vocabolario di neppure duecento parole. Una volta non ci mancavano tutti i codici per comprendere i mezzi di comunicazione, oggi sembra che li abbiano inventati ieri e noi siamo appena arrivati da Marte.

Sono giorni che vedo storie Instagram indignate per una gallery del Corriere su Paola Cortellesi. Sono dieci curiosità su di lei, con chi è sposata, con chi è stata fidanzata, dove ha cominciato in tv, le solite puttanate con cui si fanno i clic sui siti.

Quelle che s’indignano (donne: indignarsi per la gallery su Paola Cortellesi è il nuovo tagliarsi la frangia per le iraniane) scrivono cose come «ha superato i venti milioni d’incasso e loro scrivono “come conobbe il marito”». Sarebbe un’obiezione giusta se quella fosse l’unica copertura stampa che hanno ricevuto il film e la regista, o se fosse un editoriale di prima pagina.

Ma, se non capisci che una gallery di foto da cliccare con notizie leggere su un personaggio famoso va valutata con codici diversi dagli articoli sui finanziamenti al film, o sulla storia, o sulle scuole che ci portano le classi, allora abbiamo un problema. E il problema non è come i giornali trattano la Cortellesi: il problema è che non esistono più i lettori.

L’elzeviro quotidiano di Massimo Gramellini è di venticinque righe. Su Facebook, l’account del Corriere ne pubblica più o meno metà. Lo fanno perché la homepage del Corriere è a pagamento, e quindi qualcuno dovrebbe essere invogliato ad abbonarsi per leggerlo tutto.

Amerei vedere uno studio su coloro che non lo fanno, e come sono divisi. Tre file ordinate.

Quelli che non capiscono che quello che hanno letto non è un articolo compiuto, e che c’è un altro pezzetto da leggere.

Quelli che lo intuiscono ma non gli passa per l’anticamera del cervello di pagare per leggere.

E quelli per cui già dodici righe sono troppissime, uno sforzo intellettuale per il quale dovranno riposarsi tutta la mattina mandando gif agli amici.

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