Nel suo ultimo libro, Carlo Massarini racconta tredici anni di concerti che lo hanno fatto emozionare: da Prince a Battiato, passando per Bob Dylan, Sting, Benjamin Clementine, per arrivare a Salmo e Travis Scott. Una testimonianza fotografica e interattiva, grazie ai qr code che rimandano ai video delle performance dei generi più disparati, perché «La musica mi piace tutta», scrive l’autore.
Carlo Massarini, all’inizio del libro scrivi che ci troviamo in un’epoca musicale in cui tutto è ancora possibile, non ci sono più confini. Cosa intendi con questa frase?
«È ancora possibile» si riferisce al primo libro. In quell’epoca tutto era davvero possibile: i gruppi erano molto avventurosi, si cercavano nuovi scenari e suoni, c’era una ricerca musicale continua. A distanza di quarant’anni ho scritto «È ancora possibile», perché c’è una ricerca diversa di artisti che scoprono cose insolite. Rispetto al passato – quando ancora non era entrata in gioco la World Music – la produzione era molto legata all’asse America – Inghilterra, l’asse del rock. Chiaramente c’erano generi diversi: dal rock alla black music, passando per il jazz. Era un periodo ricchissimo di generi, ma mai come ora che le contaminazioni tra il mondo occidentale, quello africano caraibico, sudamericano, ma anche asiatico sono la cifra della musica di adesso. La musica tende a diventare una, con sempre meno differenze grazie alle contaminazioni. È una sorta di mistura, senza confini. Ho sempre amato questo tipo di musica: il mio gruppo preferito erano i Traffic e da lì in poi anche i Little Feat. Quel «Senza confini» diventa anche inevitabilmente politico: l’arte in generale è al di là delle bandiere etniche e nazionali, viaggia senza passaporti.
Qual è l’aspetto che ti piace di più della musica live?
Mi piace il suono perché è vivo. È vero, se hai a casa un buon impianto puoi sentire i dischi in una versione più perfetta rispetto al live. Però dal vivo il suono è molto potente e c’è la persona: sta lì, ti guarda, tu la guardi, vi scambiate un’energia. Nella musica cerco le serate fuori dell’ordinario, quelle che ti emozionano. Di Antony & the Johnsons avevo i dischi, ma dal vivo c’è quel vibrato che ti cattura, ti solleva un po’ da terra, ti far entrare in un altro piano. Quelle sono le serate che uno spera di incontrare. Nel 2018 una domenica mattina sono andato a sentire i Gospel in chiesa, è stata un’emozione molto potente. Lì c’è anche un fattore spirituale, che però c’è nella musica. I sacerdoti che siano spirituali – come Battiato – o che siano laici – come Vasco – comunque celebrano un rito. Tu vai in cerca di una ritualità che può essere consumata in maniera abbastanza semplice e diretta o molto elevata, quasi trasfigurante. Dal vivo ti aspetti di essere portato da un’altra parte. Non vai a un concerto per sentire della musica, ma per sentire un legame – anche se momentaneo – con la persona che sta lì e quella è la magia, l’alchimia. Ognuno comunica in maniera diversa, chi è molto bravo riesce a farti trascendere, a portarti da un’altra parte e farti dimenticare tutto per un’ora, due ore o quello che sia. Quando vai dal vivo cerchi l’inaspettato, non vai in cerca di quello che già sai.
Negli anni hai notato un cambiamento nel rapporto tra artista e pubblico?
Rispetto a quarant’anni fa i concerti sono diversi: ora sono spettacolo, divertimento, intrattenimento, mentre una volta era ricerca musicale. Penso agli U2, a Vasco, ai Depeche Mode, concerti sostenuti da un apparato fantastico, che riempie gli occhi, molto ricco a livello visuale, per il quale sono stati investiti molti soldi e dove c’è altrettanto lavoro dietro. Poi però ci sono i concerti piccoli nei club, senza luci pazzesche, dove non ci sono altre cose e però va bene uguale. Li trovo molto più belli che andare a un concerto in uno stadio, dove è tutto bellissimo, ci sono delle corali fantastiche, ma tu stai a centocinquanta metri e la figura la vedi solo negli schermi. Dal mio punto di vista meglio stare lì, meglio toccarlo con le mani.
Descrivendo i concerti a L’Aquila del 2015 e 2016 parli di musica per ricostruire. La musica può essere anche un collante per le comunità durante dei momenti difficili?
La musica è sicuramente qualcosa che unisce. I festival sono per definizione dei luoghi dove la gente si raccoglie in un momento di aggregazione pacifica. Se parli de L’Aquila, credo che la speranza fosse che un evento musicale sarebbe stato capace di radunare un’energia positiva all’interno di una città ferita, in un momento di gioia, di piacere, di creatività. La musica è guarigione, per molti è riuscita a lenire le ferite nei momenti difficili. La musica è anche sciamanesimo. «Dimentica i tuoi guai e danza, dimentica le tue debolezze e danza», diceva Marley che è un po’ l’archetipo in questo senso: lo sciamano africano che viene in Occidente a creare un rituale con i suoi seguaci. Se pensi alla tarantella, ai rituali africani, al Candomblè e la musica delle cerimonie brasiliane, c’è una trascendenza nella musica che è fatta per guarire. Ricordo sempre i due che avevo di fianco a vedere Peter Gabriel a Milano nel 2023. «Da così lontano siete venuti?», gli ho chiesto. «Sì, vedere Peter Gabriel è come fare un pieno di energia che poi ci portiamo avanti per tutto l’anno», mi hanno risposto.
Hai definito Travis Scott un artista-influencer-imprenditore. Esiste ancora la figura pura del musicista?
Con la tua musica devi essere un po’ imprenditore: devi promuovere, trovare una strategia per riuscire ad arrivare alla gente. Questi nuovi rapper americani sono sul crocevia tra imprenditoria, visibilità e tutta la parte mediatica. Quest’ultima ora ha preso il sopravvento su quello che semplicemente il suonare. Quelli più forti o più popolari sono diventati delle company: Travis Scott ha il settore musica, moda, beneficenza… è un’azienda vera e propria. È un fenomeno figlio dei tempi: i ragazzi vogliono avere dei riferimenti e dei modelli, loro glieli danno. La parte musicale diventa puro intrattenimento: Travis Scott stava su questo palco gigantesco solo con le basi su cui rappava. Il rap a quel livello probabilmente è fatto così: quei concerti non sono eventi dove uno viene, suona e canta, ma dove si interfaccia con il pubblico. Grandi schermi in fondo, una persona minuscola e un mare di cellulari che riprendono. La gente è contenta così, perché alla fine diventa un gigantesco karaoke, sono le modificazioni della musica.
Un concerto che ti ha emozionato particolarmente?
Ce ne sono diversi e poi va molto a giornate. Direi l’ultimo e il primo: 2010 e 2023. Prince è stato magico, era veramente un mago, mentre Peter Gabriel è tornato in scena a distanza di tredici anni con l’idea di rappresentare dal vivo un disco prima che uscisse, una cosa stranissima. Ha fatto quattro mesi di tour praticamente senza disco e nonostante avesse metà spettacolo di canzoni nuove c’era un’atmosfera molto calda, spettacolare, con questo gigantesco schermo… La sua voce è intima: riesce a toccarti le corde dell’anima.
C’è un concerto a cui non hai partecipato e a cui invece ti sarebbe piaciuto partecipare?
Bella domanda. Oltre ai Beatles vuoi dire? Li ho visti quasi tutti in realtà: ho cominciato con Jimi Hendrix e ho finito con Calcutta. In mezzo ho visto veramente di tutto. Se mi chiedessi cosa rivedrei allora la lista sarebbe lunga, a partire dai Traffic, ma anche Hendrix: ero troppo bambino per capirlo, avevo quindici anni.
Che ruolo ha la musica nella tua vita?
Una posizione assolutamente centrale, dopo gli affetti familiari è la cosa più importante della mia vita. Mi ha permesso di trovare un mestiere, un senso professionale che ho capito molto presto: avevo 18 anni. Quando sono entrato in radio ho capito che il mio ruolo poteva essere quello di interfaccia tra la musica e la gente. Mi ha dato una certezza, mi ha fatto capire che questa poteva essere una ragione di vita anche professionale. Poi comunque rimane la compagna migliore: quando non so bene che fare, dove fare, cosa fare vado a cercarmi il disco giusto per il momento giusto e questo mi mette abbastanza in pace con me stesso e con l’universo.