Le dimissioni anticipate di Charles Michel dalla presidenza del Consiglio Europeo pongono i governi europei davanti a un bivio. Anche perché, per evitare che la presidenza pro tempore passi a Viktor Orbán, l’Ungheria ricoprirà la presidenza dell’Ue da luglio a dicembre 2024, l’unica soluzione è nominare rapidamente, entro giugno, il nuovo presidente del Consiglio europeo. I governi europei, dunque, possono percorrere due strade: la prima, purtroppo la più probabile, è di proseguire come sempre e nominare un qualche ex presidente del Consiglio di una nazione europea. Molti i candidati e tutti di mezza levatura, alla Charles Michel, appunto. Se seguono questa strada la crisi politica dell’Europa continuerà ad avvilupparsi su sé stessa e l’Ue, come disse saggiamente Jacques Delors, continuerà a essere un «organismo politico non identificato», un ufo, un coacervo di tensioni non governate.
La seconda strada è assieme semplice e complessa: nominare Mario Draghi. Questa scelta implica una decisione fondamentale: scegliere l’unico leader europeo che può riprendere il cammino verso un Trattato, una Costituzione europea, il cui progetto è fallito nel 2005 a seguito dei referendum in Francia e nei Paesi Bassi che la respinsero. Una Costituzione che sciolga il nodo cruciale: un assetto statuale continentale federale o confederale. Un super Stato o una confederazione di Stati.
Sul punto, Mario Draghi ha sempre mantenuto una posizione per nulla ideologica e di sano pragmatismo. Nei suoi recenti e pesanti interventi non si è impiccato sulle formule istituzionali ma ha messo al centro quattro terreni sui quali l’Europa deve agire come uno Stato e non come un coacervo indistinto: la politica estera, la difesa comune, il debito comune e una politica industriale unitaria tesa a rilanciare una competitività e soprattutto una produttività europea in crisi da anni. Il tutto, prendendo atto, come ha più volte ripetuto, che non solo è entrato in crisi, ma che è definitivamente finito il modello sul quale l’Europa è nata e cresciuta: la difesa affidata agli Stati Uniti, l’energia a basso costo dalla Russia ed esportazioni non inficiate dalla concorrenza internazionale.Dunque, una tabula rasa dei fondamentali dello sviluppo europeo che devono essere ridefiniti.
Se l’Europa li ridefinisce con l’assetto attuale, con sistemi paese in concorrenza tra di loro, secondo Draghi l’esito è certo: «L’Europa resta solo un mercato unico» e paga una crescente insignificanza sulla scena mondiale. Se invece li ridefinisce con una cabina di regia e di comando politico unificato e omogeneo, può finalmente moltiplicare le sue enormi energie.
Dunque, scegliere ora, rapidamente Draghi come presidente del Consiglio Europeo significa mettere sui piedi la discussione sullo Stato Europeo. Non più, come fu con la Convenzione del 2003 presieduta da Valéry Giscard d’Estaing, un confronto tutto e solo istituzionale, sulla «forma Stato dell’Europa», ma sui concreti strumenti istituzionali e operativi per mettere a governo comune una Difesa Comune che è nominalmente la terza del pianeta, ma che in realtà è frantumata in ventisette comparti totalmente inefficaci, una politica estera dipendente dagli interessi strategici nuovi del continente e non più dalla rete di alleanze peculiari dei singoli Stati, un debito comune che sviluppi i meccanismi del Next Generation Eu del post Covid e infine una politica industriale tesa a una comune crescita della competitività e produttività di sistema europeo e non più di ventisette nazioni.
La sfida, dopo la guerra in Ucraina e in Medio Oriente, e con l’allargamento ad altri paesi dell’Unione Europea, è urgente e non procrastinabile. Solo una leadership europea coordinata da Mario Draghi la può affrontare. Ma non sarà così.