Il talento di Mrs PikeI Golden Globes, la scena schifosa di Saltburn e il genio dell’attrice spiritosa

Rosamund Pike è l’unica a salvarsi sul red carpet e anche nel film che, arrivato su Prime senza passare dal cinema, ha egemonizzato l’attenzione di tutti durante le vacanze

AP/Lapresse

Cominciamo dall’intelligenza degli elettricisti, sicuramente maggiore di quella degli attori. Anzi no, cominciamo dalle modalità di consumo degli audiovisivi nel nostro disgraziato tempo. Anzi no, cominciamo da Barry Keoghan vestito come una lesbica ai Golden Globes.

C’erano una volta gli uomini. Avevano molti vantaggi, e pochissimi limiti, uno dei quali era: l’abbigliamento. Quello era territorio nostro: noi potevamo sbizzarrirci, per loro era sempre giacca-e-pantaloni. Poi sono arrivati gli stylist, una disgrazia che in confronto le pandemie e le recessioni sono passeggiate al parco.

Non paghi di vestire le donne peggio di come si sarebbero vestite da sole, gli stylist hanno deciso che anche gli uomini potevano concorrere al loro fatturato, e che per farlo li avrebbero convinti a coprirsi di ridicolo. Li avrebbero convinti a farlo strano.

Finirono così i tempi in cui la gara alla resa estetica maschile era semplicemente una gara a chi stesse meglio lo smoking (Cary Grant? Sean Connery? George Clooney?), e iniziarono i tempi in cui ai poveri attori toccava vestirsi da pirla per giustificare la fattura dello stylist.

Se, come il povero protagonista di “Saltburn”, oltre agli occhi piccoli e al naso grosso hai pure la gamba corta, l’effetto è devastante. Non voglio descrivervi in dettaglio il look da arredo del salotto della signorina Felicita con cui era addobbato ai Globe: quando mi è passato davanti un post della stylist che si beava d’averlo conciato così, volevo chiamare Amnesty. No, non parliamone. Parliamo invece di George Clooney.

Un attore intelligente è raro come un giocatore di basket basso. Gli attori sono gente pagata per dire parole pensate da altri, sono gente pagata per praticare la perpetua sospensione del senso del ridicolo, sono gente pagata per mettersi in mostra: uno con un po’ di cervello difficilmente dura, in quel mestiere. (Luciano Bianciardi diceva, d’un famosissimo attore del Novecento, che era ignorante come un carabiniere: ecco, anche quello aiuta).

Quindi, quando un attore dice cose intelligenti fa più effetto di quando le dice un astrofisico, un romanziere, un terzino. George Clooney dice quasi solo cose intelligenti, e perdipiù le dice in quel suo modo suadente, insomma è impossibile non starlo a sentire.

Qualche settimana fa, in un’intervista che ha dato a Deadline per promuovere il suo nuovo film, “Boys in the boat”, ha spiegato che è importante convincere le piattaforme a concedere ai film un’uscita in sala, perché un film che esce al cinema prende un’aria imperdibile, e poi c’è una qualche attrattiva trickle-down, che ricasca anche sulla presenza del film in piattaforma, che sarà guardato di più di uno mai passato dalla sala.

Io, che passo il tempo a farmi benvolere dai registi che conosco dicendo loro ma cosa esci in sala a fare, ma il cinema in sala è morto, ma perché devi sottoporti all’umiliazione di incassare due milioni dove un tempo ne avresti incassati dieci, io che discuto da mesi su come la Cortellesi non sia rappresentativa di nulla e non abbia cambiato nulla per gli altri, io quasi mi ero fatta convincere dal modo amabile e spiritoso e convincente che ha Clooney di spiegare le cose.

Avanzamento veloce di tre settimane, e nessuno parla di “Boys in the boat”, e tutti parlano di “Saltburn”, che tomo tomo cacchio cacchio è arrivato su Prime e ha fatto ciò che avrebbe dovuto fare quella schifezza con Julia Roberts (“Il mondo dietro di te”, su Netflix): diventare il film su piattaforma di cui tutti parlano durante le vacanze natalizie, di cui tutti parlano talmente tanto che non puoi non vederlo e non essere in grado di partecipare alle conversazioni, di cui tutti parlano talmente male che qualcosa deve avere.

Che cos’è “Saltburn”: un Teodosio Losito ambientato in Inghilterra invece che a Roma, per far colpo su gente che una serie con Garko non l’avrebbe guardata mai, ma se ci metti gli inglesi si percepisce meno burina mentre schiaccia play; un “Talento di Ripley” coi paesaggi meno belli; un Adrian Lyne per generazioni che Adrian Lyne non l’hanno mai visto, che non hanno mai visto nulla che precedesse la loro nascita, e quindi pensano di aver inventato tutto loro, ora persino l’estetica pubblicitaria.

Non vorrei ripetere per la milionesima volta quel che diceva Mike Nichols, che gli inglesi scrivono solo storie imperniate sulle classi sociali, ma “Saltburn” è esattamente quella roba lì: la storia d’un arrampicatore sociale abbastanza talentuoso da capire che l’essere piccoloborghese è imperdonabile, se vuoi sedurre gli aristocratici devi fingerti più povero, più disgraziato, cresciuto in periferie ben più disagiate dell’impresentabile villetta monofamiliare dei tuoi.

(La generazione che è protagonista di “Saltburn” direbbe che questo è spoiler ma, se non capite al quinto minuto che mister gambacorta si sta fingendo disgraziato per sedurre il ragazzo ricco, beh, figli miei, bisogna che vi chiudiate in casa a leggere qualche romanzo e vedere qualche film, perché caratteristica precipua di “Saltburn” è che non accade una cosa, non una, che uno spettatore anche non attentissimo non sappia prevedere venti minuti prima).

Prima di arrivare a descrivere la scena più schifosa di “Saltburn”, che forse è anche la scena più schifosa della storia del cinema mondiale, e per darvi il tempo di smettere di leggere per non raccapricciarvi, ci tengo a informarvi che tutte le conversazioni che ho avuto nel paio di settimane trascorse da quando ho visto “Saltburn”, superato il problema di categorizzazione (è più un Adrian Lyne dei busoni o un “The Crown” dei busoni?), ruotavano sulle misure vitali di mister gambacorta. Quando si denuda nei campi, i ragazzi ricchi restano a bocca aperta per quello che pare essere un arnese enorme; poi nella scena finale lo vediamo nudo, e ha un cosino normalissimo. Hanno risparmiato sulle protesi? E ora veniamo alla scena.

A un certo punto il ragazzo ricco (Jacob Elordi, che ha preso il posto di Blanco come principale esponente della categoria «sex symbol ragazzini cui le vegliarde lanciano le mutande») si fa una sega nella vasca da bagno. Gambacorta sbirciando lo vede e, quando quello esce dalla vasca e se ne va, procede a leccare il misto di acqua sporca e sperma che si sta scaricando nelle tubature.

Vi racconto quest’orrore per parlarvi di Rosamund Pike, che in “Saltburn” è la madre di Elordi e che torna allo splendore di gelo e di anaffettività per cui l’avevamo amata in “L’amore bugiardo” (miglior battuta di “Saltburn” lei che, rispondendo a una domanda sull’amica al cui funerale deve andare, dice che sì, si è ammazzata, «Farebbe di tutto per farsi notare»).

Sul tappeto rosso degli inutili Globe, Pike era vestita come una vedova scritta da Pietro Germi che però fosse passata un attimo dall’atelier di Dior. Mentre le facevano le soliti inutili interviste che fanno sugli inutili tappeti rossi, ha mostrato alla telecamera una candela. Sull’etichetta c’era indicato l’aroma «Acqua del bagno di Jacob Elordi».

Che cos’è il genio. È saper conservare un qualche guizzo di spirito persino se fai l’attrice, persino se hai uno stylist, persino se la gente si irrita perché non vuole ammettere che le piace il kitsch e allora il tuo film lo guarda, sì, ma fingendo di odiarlo.

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