«Ragazzi, domani bisogna svegliarsi presto»: mai, nei nostri antichissimi sedici anni, questa frase fu accolta da reazione più amichevole d’un grugnito, da proposito più moderato di quello di scappare di casa. Mai, se in vacanza ci dicevano che per qualche ragione toccava svegliarsi presto, noialtri all’età in cui si dormiva fino all’ora di pranzo eravamo lieti di questa comunicazione.
Da allora però, dai nostri antichissimi sedici anni, sono passati non solo secoli, ma intere ere d’involuzione della razza umana, nella quale ora tutto è diverso. Tanto per cominciare, i figli viaggiano coi genitori. I quali genitori pigolano «finché ci viene», dicendo ad amici che non ridono loro in faccia che sicuramente questo è l’ultimo anno che il puccettone accetta di fare le vacanze con mamma e papà.
Gli amici non ridono perché hanno puccettoni trentaduenni che vengono trattati – meglio: che sono determinati a farsi trattare – come fossero sedicenni, che vanno in vacanza coi genitori, che non hanno alcuna intenzione d’emanciparsi. I trenta sono i nuovi quindici, come maturazione emotiva e intellettiva, e come capacità di badare a sé stessi.
Ai genitori non pare vero, appartenendo i genitori alla mia generazione: gente che non ha ritenuto di procurarsi una carriera, un talento, un’ambizione, e ha deciso invece di fingere che fare i genitori fosse un’attività impegnativa. Per fortuna hanno fatto figli che non hanno intenzione di diventare autonomi: la sindrome del nido vuoto era faticosa quando gli adulti avevano vite piene, figuriamoci adesso che ti parlano di come sono severi i professori col puccettone ripetente.
I puccettoni non solo restano a carico dei genitori fin verso i cinquantacinque anni – che è l’età in cui genitori ormai centenari cominciano a morire, e allora il puccettone inizia ad avere come unico tema di conversazione la morte in culla del genitore – ma sono anche loro che decidono tutto: dai consumi culturali al menu della cena.
E sono, i figli di quel ceto medio complessato che modellerebbe la propria vita su Alberto Sordi e Anna Longhi in “Le vacanze intelligenti”, interpreti mancati dei cugini alla residenza Covelli, quella di “Vacanze di Natale”: ignoranti come sedicenni, e determinati a restare tali.
Perciò, se il povero genitore vuole andare al Louvre durante il soggiorno parigino tra Natale e capodanno, non gli resta che adeguarsi e truccare la realtà secondo codici ricevibili dal puccettone. «Ragazzi, domani bisogna svegliarsi presto: andiamo a farci un selfie con la Gioconda». Al ritorno a casa, racconteranno agli amici di questo trucco col quale, ebbene sì, sono riusciti a portare la prole in un museo, nientemeno. Prima di arrivare alla Gioconda sono passati nelle sale dei Caravaggio, si vantano: glieli hanno fatti intravedere con l’inganno.
La cena a quel punto si divide in gente senza figli che giura che domani andrà a piedi al santuario più lontano per ringraziare dèi nei quali non crede di non averla fatta riprodurre e di non doversi coprire di ridicolo in questo modo; e gente che invece i figli li ha, che conosce questi drammi, che conosce queste dinamiche. La mia, spiega una commensale parlando della diciassettenne portata anche lei al Louvre con l’inganno ma a Pasqua, si è molto innervosita quando si è resa conto d’essere l’unica senza basco.
Il divario generazionale si fa crepaccio, allorché io, privilegiata coi riferimenti culturali di quando la giovinezza era la mia, chiedo se sia l’antica tradizione parigina, o se sia invece tornata di moda Monica Lewinsky, unica che ricordi col basco, in quella foto con Clinton in cui, porella, non era neppure venuta bene. Lei stessa ha raccontato che tutti le dicono che è molto meglio di come se la aspettavano, quando la incontrano, perché hanno stampata nella rètina l’immagine di lei con quel basco non donante.
Vengo guardata col compatimento rabbioso di chi non solo ha figliato, ma ha pure fatto un lavoro di anni con qualche analista da centocinquanta euro l’ora (ore di cinquanta minuti) per convincere sé stesso che figliare sia stata una gran figata, mica un modo di condannarsi a occuparsi di roba noiosissima per molte ore al giorno per molti decenni. Vengo guardata col disprezzo che ha imparato a simulare chi dev’essere continuamente aggiornato sulle classifiche di Spotify e le ultime uscite di Netflix, altrimenti i figli gli dicono «boomer». Vengo guardata con l’ira funesta di chi finge di non invidiare le tue mattine a letto a vedere vecchi film, e poi mi vengono sibilate cinque paroline sprezzanti: «Ma su, “Emily in Paris”».
Le ragazzine a Parigi riconoscono i baschi, quelli presenti nell’iconografia francese di tutti i tempi, solo perché glieli ha fatti vedere una serie sui cliché delle americane a Parigi, una serie orrenda ma per il presentismo non è questo l’importante, bensì che sia recente: abbiamo piattaforme con dentro cataloghi di decenni di cinematografia per poterci vedere solo e sempre l’ultima cosa uscita.
Analoghe ragazzine, portate dai genitori a New York, sono volute andare alla Grand Central, la stazione ferroviaria dietro Park Avenue. Per l’architettura? Figuriamoci: perché ci hanno girato “Gossip Girl”. È perché hanno quindici anni: ne avessero trenta, cioè i nuovi quindici, pretenderebbero l’itinerario dei luoghi di “Sex and the city”.
Per il ceto medio complessato è complicato l’equilibrio tra le cose da farsi per non venire espulsi dalla società civile – andare alle mostre o alla Scala – e l’assoluto, totale, bovino disinteresse dei figli per tutto ciò che è consumo culturale. Abbiamo avuto tutti quindici anni e siamo stati tutti disinteressati (a parte qualche disadattato) al turismo semicolto, ma erano anni in cui ai minorenni venivano – orrore e raccapriccio – imposte cose. Non è che se a Ravenna ti portavano a vedere i mosaici dovevano attirarti col miraggio dell’autoscatto. Ci andavi perché ci andavi, perché l’avevano deciso i grandi, perché sì. Tutte formule che oggi farebbero accorrere il Telefono azzurro e la Protezione civile.
Il vero problema di queste vacanze, per il ceto medio complessato, è stato Rothko. Come glielo spieghi, al quindicenne smanioso, che i quadri di Rothko li devi vedere dal vivo, te ne devi far sovrastare, che no, sul cellulare non è la stessa cosa? I genitori della mia generazione hanno perfezionato la capacità di blandire i puccettoni. Non «andiamo a vedere Rothko» (del quale, diversamente dalla Gioconda, gli analfabeti di casa direbbero «e chi è»); bensì: «hai presente Louis Vuitton?». Certo, abbocca il puccettone, quello delle cinte. Ecco, proprio lui, il signor Louis, quello che veste i trapper e i tiktoker e tutti gli scemer che piacciono a te, ha messo in questo posto tutte le cose più fighe al mondo: dobbiamo andare a vederle.
Torneranno a casa, e la madre sospirerà che Rothko dal vivo è una potenza, e il figlio dirà che ha visto la fondazione di quello che veste Zendaya. Le compagnucce di scuola, colpite, magari si faranno toccare una tetta. Un selfie con la cinta di Zendaya ce l’hai?
Questo non è un articolo. Questo è un abbraccio solidale a tutte le mie povere amiche, a tutti i miei poveri amici, che si fingono deliziati da queste vacanze pochissimo intelligenti, che si scambiano consigli su come truffare il puccettone renitente alla cultura ma sempre smanioso d’avere uno sfondo tiktokabile. Ai miei poveri coetanei che, con metodo di recitazione strasberghiano, arrivano a convincere loro stessi che sia bellissimo viaggiare con la prole: peccato che presto finirà.
Queste righe servono a dir loro coraggio, è finita, oggi ricomincia la scuola, fino a Pasqua state tranquilli, se proprio serve un weekend nel frattempo consiglio a febbraio Londra, c’è una mostra su Coco Chanel e una di Yoko Ono, sono sicura che saprete inventarvi qualcosa per fargli sembrare appetibile la vedova di Lennon, e per Chanel è facile: «quella che veste Cardi B» (chiunque essa sia), ed ecco salvo il compromesso storico tra ceto medio complessato e gli eredi analfabeti ma pieni di pretese che ci vendicano sbriciolandone le velleità culturali.