Spacca ItaliaLe preoccupazioni della sinistra su privatizzazioni e autonomia regionale sono fortemente esagerate

Alcuni esponenti dell’opposizione hanno criticato le misure del governo rispolverando un certo nazionalismo e protezionismo che non appartiene alla loro storia politica. Le due riforme di Palazzo Chigi in realtà sono molto più blande di quanto propagandato e non divideranno il paese. L’editoriale dell’Istituto Bruno Leoni su Linkiesta

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La sinistra ha scoperto Patria e Nazione. Dev’essere una passione tardiva ma travolgente: risulta altrimenti inspiegabile la foga con cui diversi esponenti dell’opposizione si scagliano contro il governo, attaccandolo per insufficiente nazionalismo. La scorsa settimana, per esempio, l’ex segretario del Partito democratico, Nicola Zingaretti, ha postato sui social una bandiera italiana al grido: «La destra al Senato approva la legge spacca-Italia. No alla secessione. Viva l’Italia unita e più giusta». L’ex segretario del Pd ha esortato Fratelli d’Italia e Forza Italia a cambiare nome, dopo l’approvazione del ddl Calderoli. Rimandati a settembre in nazionalismo.

In tema di privatizzazioni, sui social gira una card del Pd che accusa il governo di «svendere gli asset (sic) del paese». Per il segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni «le privatizzazioni sono l’ennesimo gigantesco autogol di una politica cieca di questo governo, incapace di fare i conti con una cosa molto semplice: l’economia di questo Paese ha avuto grandi potenzialità di sviluppo quando è stata in qualche modo orientata dalla capacità del pubblico di indicare le strategie». Da proletari di tutto il mondo, a patrioti di tutta Italia unitevi (a sinistra).

Qualunque cosa se ne pensi, le preoccupazioni sia per le privatizzazioni sia per l’autonomia sono grandemente esagerate. Le conseguenze dell’una e delle altre saranno limitate. Non è detto siano tutte positive, ma quelle negative lo saranno precisamente per le ragioni opposte a quelle sottese alle critiche di Zingaretti o Fratoianni. Privatizzazioni in cui lo Stato non perde il controllo delle aziende tutto fanno fuorché aprire i mercati alla concorrenza straniera: magari possono servire a migliorare la governance delle imprese pubbliche, ma non a immergerle nella competizione. L’autonomia può risultare in valori di spesa pubblica maggiori, proprio al mezzogiorno. Certamente non si tratta del federalismo competitivo, che incentiva i cittadini a votare con i piedi e scegliere di risiedere nelle regioni col mix più favorevole tasse/servizi pubblici.

Negli scorsi anni l’idea che i confini siano in qualche modo sacri è tornata al centro di numerose scelte politiche: dalla dilatazione del golden power fino alle incongrue promesse di proteggere l’agricoltura italiana non solo dalla concorrenza estera, ma addirittura dall’innovazione tecnologica. Il neo-nazionalismo è ormai diventato qualcosa di più di un codice condiviso da destra e sinistra: è uno strumento di reciproca accusa politica. Ed è paradossale che tutto ciò avvenga proprio quando stanno diventando evidenti i rischi e i costi dei protezionismi. Basta leggere i periodici rapporti del Global Trade Alert per realizzare quanto dappertutto la politica cerchi di ricostruire muri che negli ultimi trent’anni erano stati abbattuti.

Per quanto l’innovazione tecnologica e le prassi di imprese ormai abituate a muoversi sui mercati internazionali stiano arginando queste tendenze, non è difficile immaginare che il rifiuto della globalizzazione, anzitutto sul piano ideologico, ci condannerà a un mondo caratterizzato da minori tassi di crescita e ancora maggiori occasioni di conflitto. Sarebbe auspicabile che l’opposizione si preoccupasse di questo, anziché giocare a chi è più patriota col governo.

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