«Vorrei fare la proposta di liberarci dell’espressione “dichiaratamente gay”. È un’espressione che esiste solo nei mezzi di comunicazione, non è che sei a una cena e qualcuno ti presenta “il mio amico dichiaratamente gay”. E perché mettiamo “dichiaratamente” solo di fronte a “gay”? Mica diciamo che qualcuno è dichiaratamente irlandese, dichiaratamente mancino. È come se ti stessero dando dello svergognato: lo sei dichiaratamente?!».
Qualche giorno fa l’Hollywood Reporter ha messo on line l’abituale tavola rotonda della stagione dei premi, quella in cui alcuni candidati chiacchierano tra loro di varie cose. Questa osservazione che ho trascritto quissù l’ha fatta Andrew Scott – il prete di “Fleabag”, per capirci – mentre Robert Downey jr. e Paul Giamatti si cappottavano dal ridere.
Sapete cos’io pensi degli attori (l’ho detto ieri, mica sarete così smemorati), e quindi mi ha colpito ancora di più: persino un attore, non certo un padre nobile del pensiero occidentale, capisce una cosa che evidentemente noialtri dei giornali no. Persino un attore è più sveglio di tutti quelli che ieri hanno titolato che il nuovo primo ministro francese è «apertamente gay».
(Del fatto che ormai i titolisti parlino in doppiaggese, e quindi dicano «apertamente» giacché negli sceneggiati americani hanno sentito dire «openly gay», e non si prendano il disturbo di adattare alla lingua in cui scrivono, di questo disastro parliamo un’altra volta).
Naturalmente – è pur sempre un attore – l’intuizione di Scott è giusta, ma l’analisi è sbagliata. Non è per dire «ma non ti vergogni», che i titolisti aggiungono «dichiaratamente» o «apertamente». Semmai il contrario: serve a specificare «non lo dico per sputtanarlo, lui è d’accordo che si dica». È un cascame di quando dire di qualcuno che era gay significava qualcosa: un friccico, una minoranza, un controcorrentismo. Se i giornali nel 2024 parlassero del mondo com’è e non come se lo ricordano, titolerebbero «Tizio è dichiaratamente uno come tutti».
Il problema delle frasi fatte non sono le frasi fatte: è la scomparsa degli intellettuali, ovvero della categoria preposta a riconoscerle come tali. Non necessariamente a non usarle, ma a usarle consapevolmente, con un registro ironico, in modo postmoderno, e tutte quelle ovvietà che vi ha spiegato un secolo fa Umberto Eco. D’altra parte in quel secolo lì c’era Umberto Eco, in questo ci sono io, e con questa notazione potremmo chiudere il dibattito sul declino delle élite.
Visto che dovete accontentarvi di me seppur convinti di meritare di meglio (d’altra parte anch’io sono convinta che avrei meritato un pubblico migliore), v’inviterei a considerare la scomparsa della capacità di riconoscere una frase fatta, e quindi anche una sua parodia, dalle reazioni alla conferenza stampa di Giorgia Meloni. Che, quando le hanno chiesto tre obiettivi per il 2024, ha risposto «Abolire la povertà, pace nel mondo, ristrutturazione gratuita delle abitazioni, interni ed esterni».
Ora, Giorgia Meloni è la più ferragna delle politiche in tutto, anche nel conoscere bene il proprio pubblico e i di esso limiti. Sapeva che, se avesse detto solo «la pace nel mondo», non sarebbe arrivata a segno la parodia della miss America che risponde con la frasetta che s’illude la faccia sembrare profonda. Ha quindi segnalato la manovra coi lampeggianti: ha inserito la pace nel mondo tra due punti della propaganda dei Cinque stelle, il partito alle cui trovatine è più apertamente ostile, certa che in quel modo tutti avremmo compreso il tono, l’antifrastica, il guizzo ironico. E invece.
E invece il pubblico tutto è ormai come Gianni Boncompagni descriveva il pubblico della prima serata di Rai 1, tremebondo di fronte a concetti più sofisticati di «cane, pane, minestrina col dado». Lo so persino io, che una volta mi sarei limitata a dire «cane, pane, minestrina col dado», e adesso m’incomodo per tre righe a contestualizzarvi il riferimento per non ricevere notifiche di gente che non sa leggere e intende lamentarsene con chi scrive.
Giorgia Meloni lo sa, Giorgia Meloni vi sa, eppure per le ventiquattr’ore successive alla conferenza stampa i social erano pieni di «ma non si vergogna» (la formula preferita del cittadino con pacchetto dati) che ci spiegavano che si esprimeva come una miss.
Ma certo che si è espressa come una miss, era esattamente quello il punto, razza di imbecilli privi del secondo livello di lettura e spesso anche del primo. Vi stava dicendo che Conte (il segnaposto, no il cantante) è miss in gambissima, come fate a non capirlo, vi atteggiate a quelli che guardano i comici americani su Netflix e poi non capite le “Risate a denti stretti” della Settimana enigmistica.
E quindi, quando Chiara Ferragni dice che ha fiducia nella magistratura, noi la riportiamo come non fosse una mezza stagione, una gatta al lardo, una frase svuotata di senso: noi – taleqquali a quelli che si mettono a elencarci le loro sfighe quando chiediamo «come stai?», non avendo le minime capacità sociali necessarie a riconoscere una domanda retorica – riportiamo compìti che Chiara Ferragni ha fiducia nella magistratura.
Come se la frase, messa su Google, non si rivelasse più abusata del trasloco-terzo-evento-più-traumatico-nella-vita-di-una-persona: solo alla prima pagina di risultati, hanno avuto fiducia nella magistratura Crosetto e le ginnaste che hanno accusato l’allenatore di molestie, Leoluca Orlando e il padre di Renzi, Mimmo Lucano e la Meloni (pure lei a proposito delle accuse a Lucano: fu un caso di fiducia bilaterale).
Il problema, come sempre, siamo noi, non la Ferragni, non la Meloni, non il francese del quale non abbiamo ancora memorizzato il nome ma conosciamo le preferenze in materia di contenuto delle mutande. Il problema siamo noi che saremmo pagati per capire il mondo, per usare le parole, per riconoscere i registri lessicali, e invece guardiamo con aria intensa i nostri interlocutori e diciamo che il trasloco è il terzo evento più traumatico, i giovani hanno tanto da insegnarci, e da nessuna parte si mangia come in Italia.